I giornalisti egiziani presentano il conto al governo
Egitto Il sindacato della stampa chiede scuse ufficiali e dimissioni del ministro degli Interni o sarà sciopero. La procura generale consegna parte dei tabulati telefonici a Roma. Violata la mail di Giulio Regeni un mese dopo la sua scomparsa
Egitto Il sindacato della stampa chiede scuse ufficiali e dimissioni del ministro degli Interni o sarà sciopero. La procura generale consegna parte dei tabulati telefonici a Roma. Violata la mail di Giulio Regeni un mese dopo la sua scomparsa
Quarantotto ore dopo la notizia dell’ordine di censura imposto dal governo egiziano alla stampa nazionale sul caso Regeni, ieri gli inquirenti italiani – analizzando il computer del ricercatore – si sono trovati di fronte all’ennesima scoperta: qualcuno è entrato nell’account di posta elettronica di Giulio a fine febbraio, oltre un mese dopo la sua sparizione. Subito la Procura di Roma si è rivolta a Google per poter identificare l’indirizzo Ip da cui è stata effettuata l’intrusione.
Gli inquirenti egiziani, da parte loro, hanno sempre dichiarato di non essere stati in grado di entrare nell’account Google di Giulio. Le cose sono due: o continuano a mentire o qualcun altro ha hackerato il suo profilo. Tra le possibilità anche quella che la password sia stata ricavata dallo smartphone di Giulio, mai ritrovato dopo la sua morte.
Nelle stesse ore le autorità del Cairo tentavano di ristabilire una collaborazione con il team del pm Pignatone consegnando a Roma parte dei tabulati telefonici richiesti con una rogatoria a inizio aprile e sempre negati dietro il pretesto di violazione della costituzione. I tabulati, relativi alle telefonate di 13 egiziani (considerati di «interesse investigativo»), saranno analizzati da Ros e Sco, mentre resta ancora senza risposta la richiesta italiana dei video delle telecamere di sorveglianza nel centro del Cairo.
Si prospetta anche un altro incontro tra i due team investigativi, al Cairo nel fine settimana: a chiederlo è stato il procuratore generale egiziano Sadeq che dice di voler discutere degli sviluppi nelle indagini. Che, però, a causa del palese ostruzionismo egiziano, sono ben pochi.
Un ostruzionismo che fa il paio con le censure imposte ai media nazionali: di Regeni non si deve parlare, come non si deve parlare di tutte le patate bollenti del governo. Ma i giornalisti non cedono. Ieri dall’assemblea generale del sindacato della stampa sono uscite le richieste in risposta agli attacchi governativi: scuse ufficiali della presidenza egiziana per il raid di domenica contro la sede del sindacato, dimissioni del ministro degli Interni Ghaffar, rilascio dei giornalisti agli arresti, nuova legge a protezione della stampa:.
Decise anche le misure da prendere: non si pubblicherà più il nome di Ghaffar e si apporrà il banner “No alla censura dei media, il giornalismo non è un crimine” sui giornali cartacei e sui siti web (la versione online del quotidiano governativo al-Ahram è stata la prima a porre la banda nera). E se entro una settimana le richieste non saranno accolte, la stampa entrerà in sciopero.
Ieri in previsione dell’assemblea la polizia anti-sommossa aveva circondato la zona e impedito l’accesso a centinaia di manifestanti. Erano però 2mila i giornalisti, gli avvocati e gli attivisti di fronte all’edificio: hanno cantato slogan («Pane, libertà e sindacato», chiaro richiamo alla rivoluzione di piazza Tahrir). E lo scontro si è ampliato. Sostenitori di al-Sisi, arrivati in autobus con su la scritta “Lunga vita all’Egitto”, hanno organizzato una contromanifestazione a difesa del governo. Decine di persone hanno dichiarato il loro sostegno all’esecutivo, tenuti a distanza dal cordone di poliziotti e dalle barricate di metallo poste intorno alla sede del sindacato.
Il braccio di ferro è destinato a durare, la protesta non si eclisserà con facilità. A modello della repressione gli egiziani hanno preso gli abusi contro la stampa e fatto del sindacato lo strumento con cui difendere diritti politici e civili. Perché le violazioni contro i media non sono che lo specchio di quelle contro qualsivoglia movimento: secondo il Journalists Syndicate’s Liberties Committee, nel 2015 si sono registrati 782 attacchi contro i giornalisti, arresti, distruzione delle equipaggiature, raid, chiusura di giornali.
Il tutto, spiega l’agenzia indipendente Mada Masr, in un contesto di vacuum legislativo. Normative a protezione della stampa non ce ne sono e il disegno di legge presentato alla fine del 2014 è ancora in sospeso, aspramente criticato dal sindacato che accusa il governo di aver imbastito una legislazione repressiva: l’attuale bozza prevede l’incarcerazione per pubblicazione di articoli considerati offensivi per le istituzioni e l’obbligo per le agenzie web di ottenere l’autorizzazione alla pubblicazione, di avere dietro di sé compagnie con un capitale pari almeno a mezzo milione di sterline egiziane (circa 50mila euro) e di essere dirette da un giornalista di nazionalità egiziana con minimo di 10 anni di esperienza.
L’obiettivo è chiaro: limitare gli spazi di espressione in rete, in un paese interessato negli ultimi anni dalla nascita di siti e blog indipendenti capaci di informare in modo alternativo la popolazione ma anche di svelare i frequenti casi di corruzione.
La risposta del governo è, per ora, indiretta: mentre il tribunale d’appello del Cairo proscioglieva l’ultimo premier dell’era Mubarak, Ahmed Nazif, dalle accuse di corruzione e abuso di ufficio, un’altra corte condannava a sei mesi di prigione l’attivista Sanaa Seif (sorella dei noti Mona Seif e Alaa Abdel-Fattah) per il reato di «insulti alla magistratura». Convocata dal procuratore che la indagava per aver incitato le proteste del 25 aprile, non si era presentata.
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