I fantasmi di Gus Van Sant
Berlinale 68 «Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot» arriva in concorso il nuovo film del regista americano. Non un biopic sul celebre disegnatore, interpretato da Joaquim Phoenix, al centro i conflitti di un uomo tra alcolismo rabbia e ironia
Berlinale 68 «Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot» arriva in concorso il nuovo film del regista americano. Non un biopic sul celebre disegnatore, interpretato da Joaquim Phoenix, al centro i conflitti di un uomo tra alcolismo rabbia e ironia
Nella classifica giornaliera compilata dalla critica internazionale (Gb, Russia, Germania, Svezia) Wes Anderson continua a occupare la prima posizione con il suo L’Isola dei cani, seguito da Dovlatov di German jr. e oggi da U – July 22, il film di Erik Poppe sul massacro dell’isola di Utoya in versione teen-horror. Misteri. Intanto il festival va avanti, imponente e pieno di titoli, ci sarà anche stata una contrazione di biglietti ma come dice un’amica è davvero un caso unico oggi vedere le sale così piene, anche per proposte molto poco da «red carpet», sperimentali o di ricerca.
Ieri è stato il giorno di Gus Van Sant in concorso con Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot (già presentato al Sundance), che al suo protagonista, il disegnatore John Callahan, rimanda sin dal titolo preso da una delle sue caustiche vignette – uno sceriffo davanti a una sedia a rotelle vuota che dice: «Non preoccuparti a piedi non andrà lontano». Capelli rossi irlandesi di una madre mai conosciuta il cui fantasma lo ossessiona per tutta la vita, Callahan doveva essere interpretato nell’idea originaria del film da Robin Williams con cui il regista aveva lavorato in Genio ribelle. Poi però il film non si è mai fatto – principalmente per ragioni economiche, la produzione è ora Amazon – nel frattempo sia Callahan che Williams non c’erano più, ma Van Sant ha ripreso il progetto con cui ha lavorato già in passato, forse per affinità, siamo infatti nella sua Portland, la città dove vive da sempre, che ritorna in molti suoi film, di cui la personalità di Callahan sembra in qualche modo restituire le atmosfere. E per il ruolo di Callahan ha chiamato Joaquim Phoenix – sempre magnifico – con cui aveva lavorato in passato.
Ma non è un biopic questo, anche se l’autobiografia del suo protagonista ne è il punto di partenza, Van Sant mette al centro piuttosto i conflitti di un uomo che a ventun’anni (nel 1972) si risveglia in ospedale completamente paralizzato. Callahan era ubriaco, e dormiva accanto all’amico anche lui ubriachissimo, quando l’auto si è schiantata, e l’alcol è la sua catastrofe da sempre, bere, bere, bere che significa distruggere relazioni, lavori, testa, cuore. La colpa della sua infelicità è della madre che lo ha abbandonato, così se la racconta almeno, ma come gli dirà il guru gay con villa dorata del gruppo di alcolisti in cui infine decide di entrare – biondissimo e quasi cristologico Jonah Hill – essere vittime è una soluzione fin troppo facile.
Van Sant prosegue per flash back, frammenti, mischia un presente e un passato alcolici, disperazione e euforia di una giornata iniziata correndo nell’astinenza da alcol, finita in feste, incontri a altissimo tasso di bevute, schiantata poi sull’asfalto, con la schiena perduta per sempre. Ci sono i medici che sussurrano, e quella bellissima assistente terapeuta (Rooney Mara) che ritroverà per caso con la divisa della compagnia di volo svedese. Cosa c’è nella mente di Callahan che corre come un pazzo sulla sua sedia a rotelle elettrica sfidando pedoni e traffico, e l’equilibrio precario che lo rovescia in terra da dove lo rialza una banda di adolescenti con skate? Confusione, rabbia, ironia, tenerezza.
La capacità di guardare le cose intorno con un occhio irriverente, caustico, la stessa attitudine che metterà poi nei suoi disegni, bianco e nero, dal tratto quasi infantile dovuto al fatto che, per usare la penna, doveva servirsi di entrambe le mani, con un umorismo che non si fermava davanti a nulla; i suoi disegni erano molto poco politicamente corretti (con fan e detrattori che lo insultano per strada), con la consapevolezza di chi ha saputo lasciarsi l’autocommiserazione alle spalle. Di Callahan Van Sant segue dunque più che la carriera – per ventisette anni pubblica sul settimanale di Portland, «Wilemette Weekly» e, all’apice della sua carriera, il suo lavoro verrà ripubblicato in duecento giornali degli States – quel momento di passaggio fondamentale che è la sua disintossicazione dall’alcolismo nel quale si concentrano però quasi tutti i passaggi essenziale di una vita.
«L’ultima volta che ho camminato ero ubriaco fradicio» si presenta Callahan al suo gruppo di ascolto. È infantile, capriccioso, pretende attenzioni, aggredisce – «sei davvero un rompipalle» gli dirà alla fine il suo guru – in questo che Van Sant rende un romanzo di formazione, la conquista di una indipendenza e di una felicità senza condanne, che permette di imparare a perdonare gli altri e soprattutto se stessi. È una lotta e una liberazione in cui scorrono delicatamente riflessioni sulla vita e sulla morte, sulle scelte e sui desideri, sulle relazioni e sugli incontri improvvisi, sulla responsabilità. Come altre figure «reali» che Van Sant ha narrato nei suoi film anche Callahan rappresenta un nuovo passaggio nell’universo poetico del regista, di controcultura, malinconia, vite vissute all’estremità.
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