La vocazione autolesionista – e distruttiva – delle forze democratiche e di sinistra ha solide radici, affondano nella storia, ne traggono così abbondante nutrimento da diventare sempre più robuste e rigogliose. È quasi impossibile sradicarle, sono forti a tal punto da condizionare profondamente lo sviluppo della pianta che alimentano. Specialmente quando si attraversano stagioni politiche turbolente, drammatiche, complicate.

Guardiamo cosa sta succedendo nell’area democratica dopo la batosta elettorale delle recenti elezioni amministrative. Invece di provare a comprenderne le cause, assistiamo alla ricerca forsennata del colpevole sul quale scaricare le responsabilità politiche del tonfo. Che sicuramente sono presenti, ma che, altrettanto certamente, solo per evidente insipienza o per malcelata strumentalità possono essere attribuite ad un unico soggetto.

L’esempio più eclatante è la campagna aggressiva (dentro e fuori il Pd, anche mediatica), nei confronti della segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, accusata di massimalismo. In subordine gli attacchi a Giuseppe Conte colpevole di pensare alla sua indebolita leadership, con percentuali elettorali sempre più lontane dalle due cifre. Più distanti le minoranze di sinistra, “colpevoli” più che altro di essere troppo piccole, mentre Azione e Italia Viva giocano una partita tutta loro, e diventa complicato includerli nelle file delle opposizioni.

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Sta di fatto che, ad oggi, sembra di essere all’anno zero dei partiti che si oppongono ad una destra che governa il Paese con arroganza, ignoranza, arretratezza, furore ideologico misto a piccolo cabotaggio. Sembra di essere tornati ai tempi del berlusconismo trionfante, quando l’uomo di Arcore vinceva le elezioni, prendeva tutto il potere possibile e poi governava con prepotenza (peraltro non va dimenticato il lungo governo Berlusconi, 2001-2005). La differenza con quella stagione è che oggi al comando c’è una donna che guida anche un partito impastato di nostalgici del fascismo.

Ma proprio perché c’è un governo di stampo reazionario, conservatore, fascistoide, le opposizioni dovrebbero rimboccarsi le maniche per cercare di costruire dal basso una alternativa credibile, possibile, duratura. Nemmeno per sogno, perché a prevalere, oggi come ieri, è una pervicace, quanto ingiustificata, autoreferenzialità.

A cominciare dal Pd che, sull’onda della elezione di Schlein, sembrava marciare spinto dal vento dei sondaggi verso il sol dell’avvenire. Probabilmente, la giovane segretaria, rassicurata dai numeri, ha messo tra parentesi la ricerca dei contenuti comuni con le altre forze di opposizione, utili a favorire le alleanze. Il caso di Ancona, con lo schieramento progressista diviso, è eclatante e significativo sul tenace istinto all’autodistruzione. Come lo è, per altro verso, anche il caso di Brindisi, dove le alleanze su un candidato alla fine si sono trovate, ma talmente posticce e senza contenuti da risultare ugualmente perdenti.

A muoversi sul piano inclinato degli antichi splendori elettorali ci sono i 5Stelle, ancora convinti di poter avere presa nell’opinione della società italiana. Scommettono su una vagheggiata capacità propulsiva, ma quel tempo, quando erano in grado di raccogliere il malessere sociale, le proteste diffuse, il malcontento presente tra le organizzazioni democratiche tradizionali, ormai è perduto, finito. E se Conte insisterà a puntare su se stesso, se continuerà con la demolizione del “campo largo” è assai probabile che si condannerà alla marginalità politica.

Altre minoranze di sinistra, a parte SI e i Verdi che hanno perseguito una certa unità, tuttavia con risultati tutt’altro che clamorosi, restano ideologicamente convinte di essere le uniche ad avere ragione. Così, pur consapevoli di poter raccogliere percentuali elettorali esigue, si presentano agli elettori come i duri e puri votati alla eterna sconfitta. Della serie: meglio perdere con le proprie idee piuttosto che vincere con quelle degli altri. Se poi però si perde sempre, la sconfitta diventa epocale. Noi siamo qui, in questa parte della barricata, dentro un quadro piuttosto desolante.

Osservare cosa accade in casa nostra non significa bendarsi di fronte a quello che capita altrove. Dove le destre vincono nonostante le buone politiche sociali dei governi (come in Spagna), o nonostante i tentativi di tenere aperta, dall’opposizione, una possibilità di progresso (come in Grecia). Perfino in Turchia con il fronte di forze che ha giocato, e perso, la partita contro Erdogan.

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L’avanzata delle destre è un segnale inequivocabile di un orientamento di larga parte dell’opinione pubblica europea. È vero che ogni paese vive situazioni particolari, diverse ed è forse azzardato cercare di trovare elementi comuni. Però stiano dentro un’epoca di forte disorientamento, di insicurezza, di paura (di una terza guerra mondiale), di incapacità di intravedere un futuro diverso dal disastro.

Le idee della sinistra non godono di grande popolarità. L’individualismo prevale sulla collettività, il decisionismo sulla partecipazione, l’uomo (e la donna forte) sui valori e i simboli democratici della solidarietà. I diritti si restringono ad una difesa di se stessi e del proprio nucleo familiare e sociale, piuttosto che rivolgersi agli altri, alle diversità. Questo humus culturale, sociale, politico non può non favorire le destre, quali esse siano.

Per provare a invertire la rotta è necessario mettere a fuoco obiettivi reali, privilegiare i terreni di accordo. Dal salario minimo (se ne parla molto ma poi è una piccola forza come Unione popolare a prendere l’iniziativa dei banchetti per la raccolta di firme ). Sulla sanità tutti sono d’accordo nella diagnosi di indebolimento progressivo della sanità pubblica, ma è solo la Cgil a chiamare la piazza per una manifestazione nazionale. Sulla scuola, sui trasporti, sul clima… e l’elenco potrebbe continuare.

Non bisogna vederla allo stesso modo su tutto per dare battaglia contro la destra, altrimenti ci sarebbe un partito unico dell’opposizione. Né è sufficiente mettere al primo posto l’unità elettorale, anche se necessaria (e questa legge elettorale, di cui difficilmente ci libereremo, chiede le coalizioni), perché bisogna guardare oltre, per costruire davvero la possibilità di sovvertire l’agenda e indicare al paese un orizzonte meno oppressivo e violento, più partecipativo, più democratico.

La lunga marcia che evocavamo dopo la vittoria della destra del 25 settembre non è ancora iniziata, ma ha davanti a sé una meta che sembra irraggiungibile.