Giovedì 7 luglio il Garante per la protezione dei dati personali Pasquale Stanzione ha tenuto la relazione annuale. E, anche in tale occasione, l’Autorità creata nel 1996 in base alle intuizioni di Stefano Rodotà ha messo in luce le sue virtù.

Con una certa puntualità, il testo ha inquadrato il contesto: la super-società di cui ha parlato il sociologo Magatti, fatta di interdipendenze inestricabili proprio nell’era della disintermediazione.

In simile quadro, i presidi a tutela delle persone (e degli stessi Stati) vacillano. La normativa pensata dentro o in rapporto all’epoca analogica ha bisogno di urgenti aggiornamenti. Che non si limitino a un’opera di maquillage.

La guerra e la pandemia hanno aumentato la vulnerabilità informatica. Secondo le stime del World Economic Forum, nell’ultimo anno si è registrato un aumento del 151% degli attacchi ramsomware, con una perdita stimata per ogni azienda vittima di 4,24 milioni di dollari.

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Il conflitto in Ucraina ha svelato le nuove mortifere conseguenze delle applicazioni tecnologiche co-protagoniste del dramma in corso.

Il medesimo concetto di frontiera va ridefinito, dentro lo scenario della «cyber-war» e del contiguo mondo social. Insomma, le strategie del controllo e della manipolazione comportano «la datificazione» della vita individuale e collettiva, con un rimodellamento degli assetti di potere.

Si sta, augurabilmente, delineando una via europea al digitale. Alquanto tardiva. Ma la speranza, come si sa, è l’ultima a morire.

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L’elenco delle buone (o discrete) pratiche corre dal codice di condotta sulla disinformazione, al regolamento sull’Intelligenza artificiale che pone limiti e invoca cautele rispetto a uno scientismo deterministico, alle proposte legislative sul decisivo flusso dei dati (Data Act e Data Governance Act), ai recentissimi Digital Services e Digital Markets, agli interventi a tutela dei minori o dei cittadini oppressi dall’invasivo telemarketing o delle donne stalkerate dal «revenge porn».

Il filo conduttore della nouvelle vague appaiono la maggior cura per i diritti delle persone, a partire da chi è più fragile, e un timido ridimensionamento degli oligarchi della rete. Si guarda (fuori tempo massimo?) alla devastante incombenza del capitalismo delle piattaforme.

Insieme allo sfruttamento economico e all’emarginazione sociale, si appalesano il controllo dei cervelli e la costruzione dei desideri collettivi. Il ricorso al mercato dei profili disegnati come fossero il nostro gemello digitale, nonché al loro mercimonio a scopo commerciale o politico è una sorta di prova generale. Ci aspettano la società della sorveglianza e una sorta di dittatura di robot e di algoritmi.

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La relazione percorre i vari capitoli del libro nero e chiede, giustamente, un maggiore ascolto da parte delle istituzioni, alle prese con i potenziali risvolti intrusivi nella sanità o con la delicatissima costruzione di un sistema di Cloud della pubblica amministrazione.

Guai a cedere ai richiami emergenziali, quando la tutela della riservatezza è l’inesorabile altra faccia di un discorso equilibrato e non subalterno.

Il Garante fa pennellate veloci su numerosi piani dell’approccio dal punto di vista della privacy: dalla giustizia all’informazione. Naturalmente, non sfuggirà a un collegio tanto attento che il diritto di cronaca è insopprimibile. Costi quel che costi.

La relazione pone un quesito politico condivisibile, già anticipato dalle omologhe puntate svolte dal predecessore Antonello Soro: l’ufficio ha bisogno di rinforzi e di divenire, con adeguato appoggio normativo, un’Autorità per i diritti fondamentali.

Con un’enfasi forse eccessiva, si auspica un umanesimo digitale. Ottime intenzioni, ma con ricette ancora embrionali. È un corpo a corpo con i «Cattivi», che esige una vasta presa di coscienza e un complessivo salto di qualità.

Una domanda: con quali forze e alleanze? Non si dimentichi la brillante battuta del compianto Nanni Loy: nel western all’italiana, per risparmiare, uno attaccava il fortino e uno lo circondava. Troppo poco.