La guerra è sempre un crimine contro l’umanità. Chiunque la fomenti trovandosi in una posizione di comando – non essendo dunque costretto al sopruso per via di una disciplina militare o dalla forza del potere – deve essere considerato un criminale di guerra.

Corresponsabile degli orrori perpetrati e degli effetti devastanti della violenza bellica. L’unica guerra «giusta» è quella di resistenza contro l’invasore o contro il tiranno: una guerra di difesa dall’aggressione altrui che spetta ad ogni individuo, ad ogni comunità che si vedono offesi nella propria dignità, perché espropriati dei propri territori, della libertà di autodeterminazione, della vita individuale e di quella in comune. Un diritto di resistenza che è proprio di ogni popolo ovunque risieda e contro qualunque invasore o despota.

Nell’età moderna per far valere questi principi di diritto naturale sono stati istituiti diversi tipi di tribunali internazionali, alcuni finalizzati alla condanna dei crimini commessi in particolari conflitti ovvero dagli Stati (dai Tribunali ad hoc istituiti dall’Onu alla Corte Internazionale di Giustizia), altri alla ricerca delle colpe dei singoli (da Norimberga e Tokyo alla Corte Penale Internazionale, Cpi). È evidente il grande merito di queste istituzioni che vogliono far prevalere il superiore valore della giustizia nei casi in cui venga arrecata la massima offesa all’umanità intera. Non può negarsi però che questi tribunali operano in condizioni in cui i giudizi difficilmente riescono ad avere un carattere universale. È ricorrente infatti l’accusa di esprimere solo una «giustizia dei vincitori», una «giustizia su misura» che si applica agli sconfitti ovvero ai nemici dell’occidente, mentre alcune potenze si sottraggono alla giurisdizione di tali tribunali e continuano a rivendicare l’impunità per le loro guerre di aggressione, svolte in nome dell’umanità.

In questo contesto non si può negare che Putin sia perseguibile per crimini contro l’umanità. Sarebbe necessario aggiungere, però, che non ci dovrebbero essere remore neppure nel condannare le violenze perpetrate sotto ogni latitudine, in ogni scenario bellico o di dominio su popolazioni colonizzate. Sempre che si vogliano coerentemente perseguire tutti i crimini contro l’umanità, in ogni parte del globo e da chiunque commessi. L’aver scatenato la guerra, dunque, legittima la Cpi ad indagare sull’operato di Putin; tuttavia, le più delicate domande da porsi sono altre. Si tratta principalmente di interrogarsi – più che su ciò che ha fatto – su ciò che non fa e sulle modalità con cui opera.

Difatti, l’azione ora intrapresa rende ancora più intollerabile l’inerzia verso altri scenari ove sono noti i crimini commessi contro l’umanità, ma i cui responsabili sono da ricercare tra i leader politici delle potenze occidentali. L’universalismo dei diritti non può avere confini né geografici, né ideologici. D’altronde proprio la vicenda ucraina dimostra che la giurisdizione della Cpi è «sconfinata», operando anche nei territori e nei confronti di chi non ha sottoscritto la Convenzione del 1998 (Ucraina e Russia) e con il sostegno e l’ausilio investigativo di quei paesi che pure non riconoscono la legittimità del tribunale dell’Aia (Usa). Ecco perché lo squilibrio nell’esercizio dell’azione penale, che si attiva solo nelle occasioni ritenute evidentemente di maggiore gravità, quali che siano le giustificazioni che potrebbero essere fornite, seppure non metta di per sé in discussione la «legalità» del suo operato, di certo incide – schmittianamente – sulla sua più profonda «legittimazione» venendo a negare la percezione dell’imparzialità della Corte.

L’altra questione su cui interrogar riguarda le modalità con cui si sta procedendo nelle indagini. Si consideri che la Cpi, in assenza di un obbligo analogo a quello che la nostra costituzione impone ai pubblici ministeri di esercitare l’azione penale ovvero in mancanza di rischi relativi alla prescrizione dei reati commessi, è responsabile dei «tempi» delle proprie indagini, che può ben modulare. Non ci si può allora esimere dal chiedere perché la scelta di spiccare l’ordine di arresto in questo momento.

Due sono le ragioni che lasciano perplessi nella scelta dei tempi. In primo luogo, per una valutazione di natura processuale. Come è noto l’orrendo crimine di deportazione in Russia di bambini ucraini cui è ora accusato Putin, non è che il primo di una lunga serie su cui il procuratore sta indagando e che, probabilmente, porteranno tra breve ad altre ed ancora più odiose incriminazioni, quella di genocidio in particolare. Perché non aspettare di avere completato le indagini? Perché un atto che sembra essere un’accelerazione non necessaria? E l’utilità di ultimare le indagini sarebbe stata motivata anche per una seconda decisiva ragione. Avrebbe consentito di attendere la fine del conflitto armato prima di instaurare il processo, condizione che servirebbe almeno per ridurre i non infondati sospetti di non terzietà. Così è stato per tutti i casi di giudizio su crimini di guerra svolti da tribunali internazionali.

Si potrebbe avanzare la possibile obiezione secondo la quale non spetta alla Corte alcun tipo di valutazione politica o diplomatica (secondo il rude brocardo fiat iustitia, pereat mundus) ma, a tutto concedere, deve anche considerarsi che una condizione necessaria per poter esercitare giustizia è quella di rimanere terzi rispetto al conflitto in corso. Aspettare la fine della guerra per perseguire la pace attraverso il diritto senza farsi coinvolgere, neppure involontariamente, da nessuno dei potenziali futuri accusati o accusatori.

In assenza di tali presupposti non può che giungersi ad una inevitabile ed amara conclusione. Si dovrà ammettere cioè che il tribunale internazionale, che opera a nome di ben 123 Stati e a cui si affidano tante speranze per far prevalere le ragioni del diritto su quelle della forza barbarica dei carnefici non può però essere considerato espressione di un globalismo giuridico manifestazione della giustizia universale, conformandosi invece come «giustizia su misura». Un disastro per il diritto globale, un ostacolo per la pace.