Parlare di corruzione, in queste settimane, porta sempre, quasi inevitabilmente, a parlare di Genova. Lo sa bene il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, che ieri ha presentato alla Camera la sua relazione annuale e proprio al capoluogo ligure ha deducato l’unico passaggio sull’attualità. Non tanto – o non solo – sull’inchiesta che ha portato il governatore Giovanni Toti agli arresti domiciliari, ma su un dettaglio: il caso della diga Foranea i cui costi, secondo Busia, «esploderanno». La situazione vede l’opera al centro di un contenzioso giudiziario: un anno fa il Tar della Liguria aveva annullato l’aggiudicazione della gara. Ma, visto che di mezzo ci sono i finanziamenti del Pnrr, i lavori sono andati avanti lo stesso, perché la sentenza amministrativa non prevedeva cessazione del contratto già stipulato.

«QUANTO FATTO sin qui – ha detto il capo dell’Anac – oltre a limitare il grado di controllabilità delle procedure, rischia di provocare significativi aumenti dei costi dei contratti». E questo, comunque, vale «anche indipendentemente dagli ultimi sviluppi registrati sulla vicenda», mentre sullo sfondo già si vede «il progressivo esaurirsi di alcuni fondi e la riattivazione dei vincoli di bilancio europei». Eventualità che « richiederanno un controllo più stringente sulla spesa pubblica». Ma Busia vede il problema della corruzione in maniera più articolata delle singole inchieste in atto. Un lungo capitolo della sua relazione è infatti legato ai morti sul lavoro, spesso vittime di appalti, per così dire, concessi in maniera approssimativa. Il climax ascendente che fa Busia è da brividi: «Le donne e gli uomini sepolti vivi sotto le macerie di infrastrutture ed edifici costruiti con la sabbia al posto del cemento; i lavoratori schiacciati o soffocati nei cantieri perché chi avrebbe dovuto vigilare sulla loro sicurezza è stato indirizzato verso altri obiettivi; i pazienti che scontano la scarsa qualità di attrezzature sanitarie acquistate con procedure opache; i bambini malnutriti, nei paesi più fragili, a causa di aiuti umanitari che si perdono nelle pieghe di torbidi intrecci tra burocrazia e malaffare». La corruzione, insomma, non è solo un problema di costume, perché nei fatti «inquina la democrazia» e «rafforza le mafie». Prosegue Busia: «Anche quando non uccide, la corruzione arreca danni inestimabili, affinando le sue armi con mezzi sempre più subdoli. Opere non ultimate, o completate con smodati ritardi e sperpero di risorse pubbliche. Imprese sane che falliscono a causa di un mercato poco aperto e trasparente. Giovani eccellenze costrette a cercare all’estero chances di realizzazione professionale, sottratte in patria da concorsi poco trasparenti».

E I DATI, IN ITALIA, sono «poco incoraggianti», perché in Europa «vedono il nostro paese in una posizione ancora troppo arretrata», quello con «il valore più alto in termini di di danni finanziari al bilancio dell’Ue a seguito di frodi e malversazioni, anche riconducibili alla criminalità organizzata». Il dito di Busia è allora puntato contro i conflitti d’interesse, oltre che contro l’abolizione dell’abuso d’ufficio, che «sicuramente lascerà dei vuoti nel nostro ordinamento». Poi si arriva al capitolo Pnrr. «Opportunità irripetibile» per tutti, anche per il presidente dell’Anac, e che però già evidenzia «dati preoccupanti sulla spesa effettiva». Il nodo è quello degli appalti, spesso catene lunghissime, difficili da decifrare, tra tempi che si allungano e costi che lievitano, senza che nessuno sappia dire esattamente perché. I numeri del 2023 non lasciano ben sperare per il futuro: gli appalti dal valore superiore a 40mila euro assegnati toccano quota 283,4 miliardi di valore. Gli affidamenti diretti, effettuati cioè senza gara, sono il 46.9% del totale. Ma se contiamo insieme le procedure negoziate (senza cioè la pubblicazione di un bando) saliamo al 78.1%. E se mettiamo nel calderone anche gli appalti più piccoli, sotto i 40mila euro, la percentuale sale a oltre il 90%. «Le amministrazioni hanno optato per procedure non pienamente concorrenziali», ha concluso gelidamente Busia.

SE ALLA LUCE di tutto questo, oltre che delle recenti inchieste, sia lecito o meno parlare di una nuova tangentopoli non è chiaro. Certo, di per sé, la situazione è molto diversa rispetto a trent’anni fa: il convento è sempre più povero, e anche i frati non è che abbiano le tasche piene di denari. Tranne alcuni, pochi, che sono sempre più ricchi. Busia non ha risposte. Dice che «dobbiamo evitare» che questa sia una nuova tangentopoli. Come fare, in fondo, non spetta nemmeno a lui dirlo.