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I candidati già sconfitti che sfidano Trump. Mentre Wall Street pensa alla sua “alternativa”

I candidati già sconfitti che sfidano Trump. Mentre Wall Street pensa alla sua “alternativa”

Stati uniti Ultimi ad entrare nella contesa delle primarie repubblicane Chris Christie e Mike Pence. Ma al "banchetto dei carnivori" dell'alta finanza si pensa ad altri nomi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 14 giugno 2023
Luca CeladaLOS ANGELES

Con le candidature dell’ex vicepresidente Mike Pence e dell’ex governatore del New Jersey, Chris Christie, si va definendo la rosa dei pretendenti alla nomination repubblicana. Oltre a Christie e Pence, ad oggi hanno formalizzato le proprie ambizioni presidenziali l’ex ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, Asa Hutchinson, già governatore dell’Arkansas, Tim Scott, senatore del South Carolina, gli imprenditori Vivek Ramaswamy, Perry Johnson e Ryan Binkley, il governatore del South Dakota Doug Burgum e Larry Elder, conduttore di talk show e semi celebrità conservatrice. A questo campo già affollato potrebbero aggiungersi ancora altri nomi, ma è dato acquisito che l’unico pretendente con una qualche possibilità di contendere la nomination al padre padrone del trumpismo è Ron DeSantis. Tuttavia, i sondaggi assegnano al governatore italoamericano della Florida poco più del 20% delle preferenze contro le oltre 50% di Trump.

Di contro c’è Joe Biden, l’anziano presidente con un gradimento inchiodato attorno al 40%, appena il 60% all’interno del suo stesso partito. Anche lui dovrà sostenere una sfida alle primarie, anche se apparentemente solo simbolica, da parte di Robert Kennedy Jr., rampollo in versione complottista e no-vax e dalla progressista Mariane Williamson.

Sulla carta, Trump, che ha perso il voto popolare per quasi tre milioni di voti, anche quando è diventato presidente nel 2016 – e nel 2020 ha preso 7 milioni di voti in meno di Biden – non avrebbe smaglianti prospettive. Se la sua vittoria del 2016 è stata dovuta a millimetriche vittorie in appena quattro stati, rivelatisi strategici ai fini del collegio elettorale, la strada sarebbe a maggior ragione in salita oggi, senza lo smalto della novità, post-tentato golpe e con un fardello di processi che continua ad appesantirsi. In un quadro del genere, la fedeltà incrollabile del suo zoccolo duro potrebbe non bastare per ripetere l’exploit. La sua carta più promettente, paradossalmente, potrebbe essere proprio l’ottuagenario Biden. Già per molti, candidato “di ripiego” quando si trattava di stabilizzare il paese quattro anni fa, la sua impopolarità oggi potrebbe fiaccare l’affluenza al punto di lasciare la porta aperta ad un elettorato di destra più motivato a riprendersi al Casa bianca.

Non è un caso che il dato saliente del momento politico sia una generale disaffezione. Lo scenario che si prospetta non accontenta nessuno. La prospettiva del presidente più anziano di sempre è un ingombrante elefante nella stanza democratica, tanto più per l’ala sinistra che avrebbe sperato in un leader più progressista. Non aiuta lo scarso carisma della vice Kamala Harris che date le circostanze potrebbe assumere un ruolo di rilievo come tema della campagna.

Il partito repubblicano, intanto, fatica a superare una complicata sindrome di Stoccolma, ancora di fatto ostaggio di un despota la cui amarezza sembra essere stata solo amplificata dall’esilio e dai processi. Ancora più rancoroso e vendicativo, Trump è capace di riempire ore di comizio con lunghe liste di recriminazioni sulla persecuzione di cui si ritiene vittima, alternate alle minacce di ritorsioni punitive contro i nemici, che sembrano costituire ormai il grosso del suo programma.

Esiste dunque un diffuso, ancorché poco espresso, nervosismo nei confronti della sua candidatura, in particolare da parte delle tradizionali componenti del partito: imprese e lobby che rappresentano il grande capitale. Per gli esponenti “moderati” del partito, che hanno accettato di buon grado il baratto faustiano col demagogo populista, in cambio della vittoria elettorale e del taglio radicale delle tasse, incassato nel 2017 (e la blindatura della Corte suprema), si tratta in buona parte di lacrime di coccodrillo. Ma i committenti (e finanziatori) storici del Gop, il partito di Wall Street, hanno assistito con crescente inquietudine alla deriva populista che ha spostato l’asse politico del partito su lotte identitarie quali la salvaguardia delle cucine a gas, la protezione di pronomi tradizionali e la revisione negazionista dei libri di testo. Non sono in pochi a rimpiangere l’amministrazione Obama, col suo gabinetto targato Goldman Sachs.

L’insofferenza è confermata da un organo non meno autorevole del Wall Street Journal, la cui corrispondente, Cara Lombardo, ha riferito di un «banchetto di carnivori» (questo il vero nome i dell’evento) svoltosi a fine maggio nella tenuta dell’ex presidente della Honeywell, David Cote.  Oltre che di un incontro di appassionati di barbecue si è trattato di un summit informale di esponenti di spicco della finanza che hanno espresso tuti i loro dubbi sulle prospettive elettorali. «Nessuno vuole Biden e nessuno vuole Trump», ha affermato uno dei presenti. «Tutti sperano in un miracolo». I finanzieri di Wall Street temono le politiche antitrust caldeggiate dal presidente ed il piano fiscale che ritengono ostile alle imprese. D’altro canto, non vedono certo di buon occhio la guerra commerciale e l’isolazionismo perseguiti da Trump. Sopra a tutto banchieri e manager di fondi di investimento temono l’incertezza che è marchio di fabbrica di Trump. E molti lo hanno sconfessato dopo gli eventi del 6 gennaio 2021. Il default a cui è di recente andato vicino a causa di uno scontro politico, non ha fatto nulla per alleviare i loro timori.

Allo stato attuale sembrerebbe effettivamente necessario un evento soprannaturale per introdurre un’alternativa. Una potrebbe essere DeSantis, ma è la sua guerra anti-woke alla Disney ha suscitato forte diffidenza. Un’altra ipotesi ventilata sarebbe una candidatura ad hoc. A questo proposito è circolato il nome di Jamie Dimon, amministratore della JP Morgan Chase, maggiore banca Usa (ha da poco inglobato la fallimentare First Republic). Ma Dimon, che in passato aveva affermato di poter battere Trump, si è defilato. Un altro nome ventilato è quello di Joe Manchin, senatore democratico, ma anche il più fedele emissario delle corporation, espressione soprattutto della lobby petrolifera nel Senato.

Per ora rimangono solo astrazioni. La realtà politica sembra imporre, a capitalisti e carnivori, solo di aspettare e sperare che intervengano eventuali imprevisti. Un pòo’come tutto il paese.

 

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