Sui primi Mondiali di calcio ospitati da uno Stato arabo, il Qatar, in Italia e in numerosi altri paesi sulle due sponde dell’Atlantico sono stati prodotti una pletora di programmi tv e articoli volti a denunciare le violazioni dei diritti umani nel Paese. Secondo il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, per citare uno dei più recenti esempi, «le immagini della nazionale tedesca di mettersi la mano di fronte alla bocca» fa «la storia dello sport ma anche la storia di tutti noi». Anche Fiorello, usando la proverbiale serietà dell’ironia, ha sottolineato che «si dovrebbero ritirare tutti da questo Mondiale» in quanto si tratta di «un paese che calpesta i diritti umani».

Il sistema della Kafala – che consente lo sfruttamento dei lavoratori-migranti in Qatar e in altri paesi della regione – è stato originariamente introdotto nel Golfo Persico durante l’era coloniale britannica. Il fine era quello di controllare e regolamentare il trattamento dei lavoratori stranieri nell’industria delle perle: è un sistema figlio delle politiche coloniali e dei traffici commerciali ad esse legati.

A ciò si aggiunga che quasi nessuno tra quanti manifestano un improvviso interesse per i diritti umani in Qatar sembra avvertire l’esigenza di esporsi con la stessa energia riguardo i miliardi di euro in armi che le industrie della “Difesa” dei paesi europei esportano ogni anno a Doha, Riyad e verso altri regimi che – anche grazie a quelle stesse armi – riescono a soffocare ogni forma di dissenso interno, tanto di ordine politico quanto sociale (anche riguardo le questioni di genere).

Il Regno Unito, che negli ultimi 12 anni ha concesso in licenza al regime di Doha armi per un valore di oltre 3,4 miliardi di sterline, vanta in questo senso un rapporto particolarmente stretto con il Qatar (dove è peraltro stazionata la più grande base militare Usa in Medio Oriente). Diversi paesi dell’Ue, che secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati «violano gravemente» i diritti umani dei migranti, mostrano trend simili. L’Italia, quarto esportatore di armi nell’Unione europea, è fra questi.

 

Doha, 22 novembre, il segretario di Stato Usa Antony Blinken firma una lettera di intenti con il ministro degli Esteri qatarino Mohammed Bin Adbulrahman Al Thani (Ap)

 

Per quanto riguarda la Germania – che ha da poco ripreso a esportare ingenti armi utilizzate nello Yemen (dove si stima che muoia un bambino ogni 10 minuti) – è sufficiente ricordare l’affaire Mesut Özil: quando il calciatore denunciò con un Tweet (dicembre 2019) la persecuzione contro gli Uiguri musulmani in Cina, diversi suoi compagni di nazionale si espressero contro di lui, mentre l’Arsenal, la squadra inglese presso cui era tesserato, rilasciò la seguente dichiarazione: «In quanto squadra di calcio, l’Arsenal ha sempre aderito al principio di non farsi coinvolgere in questioni politiche».

Sarebbe inoltre opportuno chiedersi per quale ragione le violazioni dei diritti umani compiute da decenni in Russia (che ha organizzato la coppa del mondo del 2018), così come in altri paesi che hanno ospitato precedenti edizioni della competizione calcistica, non abbiano attirato critiche e “gesti” paragonabili a quelli attuali.

Per fare un esempio tra molti altri, la Bbc si è rifiutata di mandare in onda la cerimonia inaugurale in Qatar, mentre quella in Russia del 2018, così come accaduto anche in occasione delle Olimpiadi Invernali del 2022 a Pechino, è andata regolarmente in onda. Al posto della cerimonia inaugurale avvenuta allo stadio Al-Bayt, la Bbc ha preferito proporre un servizio per fare luce sulla condizione dei migranti in Qatar. Per contro, nessuno speciale è stato prodotto su altre questioni, a partire dalle magliette indossate dalla nazionale inglese: costano 115 sterline l’una, a fronte di 1 sterlina all’ora elargita agli operai thailandesi che le fabbricano.

Tutto ciò non va inteso come un modo per negare il problema. È infatti chiaro che molti tra quanti giustificano le violazioni dei diritti umani in Qatar sono mossi da tornaconti personali, oppure conoscono in modo superficiale il Paese: le timide riforme registrate negli ultimi anni per regolamentare il sistema della Kafala continuano in questo senso a lasciare i lavoratori in balia di padroni-sfruttatori. Ma, per l’appunto, chi si concentra solo o quasi sul regime (e altri presenti nella regione), trascurando il più ampio retroterra e contesto, sceglie il bersaglio facile e si fa portavoce di una espressione di ipocrisia.

I qatarini – compresi i migranti sfruttati – hanno il pieno diritto di lottare per i propri diritti. I “nostri” paesi, d’altro canto, hanno il dovere di smettere di impartire lezioni. In altre parole: come per la questione dei “flussi migratori verso l’Europa” – spesso analizzata focalizzandosi sulle navi delle Ong e non sullo sfruttamento sistematico dell’Africa -, anche nel caso del Qatar manca una maggiore consapevolezza legata alle violazioni dei diritti umani di cui si macchiano numerosi paesi europei, nonché delle condizioni strutturali che hanno portato all’ascesa di quegli stessi regimi e all’attuale “velenosa” presa che essi hanno sulle popolazioni locali.

Fare luce sul peso della Storia – presente ancor prima che passata – potrebbe rivelarsi il migliore degli antidoti.