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I «belgitani» di Arquata, da Marcinelle al terremoto

I «belgitani» di Arquata, da Marcinelle al terremotoUn momento della tragedia di Marcinelle

Reportage Tra gli anziani minatori superstiti della tragedia, senza casa e malati di silicosi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 9 agosto 2017
Angelo FerracutiARQUATA DEL TRONTO

Pochi giorni fa ero a Borgo di Arquata del Tronto, uno dei luoghi del terremoto, a prendere appunti per il mio libro-reportage che uscirà alla fine dell’anno, quando mi sono accorto che in un podere nascosto vicino al villaggio con le casette ancora in costruzione, c’erano due vecchi seduti all’ombra a prendere il fresco. Quando li ho raggiunti, superando i due filari di vigna, stavano seduti immobili su due sedie di plastica verdi, gli occhi dolci e acquosi, sereni conversavano ingannando il tempo. Mi hanno detto che abitavano qui prima del sisma, ora si sono spostati sulla costa adriatica all’hotel Maestrale di Porto d’Ascoli, vengono qualche volta con la corriera quando il tempo è buono. Entrambi novantenni, si chiamano Nazzarena e Alberto, sposati da 64 anni, sono vissuti più di trenta in Belgio dove lui lavorava in miniera a Charleroi, quello che chiamavano «il paese nero», noto per la tragedia di Marcinelle. Nazzarena ha i capelli bianchi lucidi, un viso sereno, lui è piccolo di statura, una barba incolta, gli occhiali da vista con la montatura rettangolare, il cappello di paglia in testa e i tubicini dell’ossigeno dentro le narici, che scendono verso il basso come una collana finendo dentro una borsa di tela azzurra. Ha la silicosi, «questo è il frutto della miniera» sostiene senza rancore, quella che chiamano «la malattia della mina». Alberto dice rammaricato che facendo i lavori per allestire il villaggio gli hanno fatto fuori alcune piante di noci, «siamo tornati dall’estero, abbiamo comprato questa proprietà per vederla massacrare», ripete inquieto. Se ne stanno seduti immobili e sembrano bastare a se stessi questi due vecchi, nella terra delle radici, sopra di loro una montagna ricoperta di alberi rigogliosi e verdissimi che si alza verso il cielo.

ERANO MOLTI quelli di Trisungo che sono emigrati per lavorare in miniera, «dopo tutti i nostri sacrifici non si sono mai sognati di mettere una lapide», si lamenta lui. «Allora non c’era altra scelta, non potevi neanche uscire dal paese, siamo stati costretti a partire». La moglie ricorda quegli anni, faticosi e bellissimi, «andava a più di cinquecento metri sottoterra, quando usciva dalla miniera era tutto nero, mi chiamava lui perché io non lo riconoscevo», racconta divertita. George Orwell, che era andato alla fine degli anni ’20 a raccontarli dentro la Grande depressione nei distretti minerari a nord dell’Inghilterra, a Sheffield, Barnsley, per capire la condizione operaia, quelli come lui li definì in modo impeccabile nel suo celebre reportage Sulla strada di Wigan Pier: «È il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro è così esageratamente orribile, ma anche perché è così virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene».

DI «MUSI NERI» come Alberto ne partirono in molti verso le miniere del Belgio, a cominciare dal 23 giugno 1946 dopo l’accordo uomo-carbone firmato dal primo ministro Alcide De Gasperi con il governo di quel paese, braccia da lavoro in cambio di combustibile che serviva per la ricostruzione, 223 mila italiani emigrati in soli dieci anni, arrivati dalle zone più povere dell’Italia stremata del dopoguerra, dall’Abruzzo, dalla Calabria, dalla Basilicata, dalla Puglia e dalle Marche dopo viaggi su treni merci che potevano durare anche 52 ore, i «belgitani» di un’epica alla quale un libro di impeccabile rigore stilistico, documentazione storica e passione civile ha reso giustizia, La catastròfa (Sellerio) di Paolo Di Stefano. Racconta un buco nero, una ferita dell’autobiografia della nazione, il disastro della miniera di Bois du Cazier a Marcinelle.

SUCCESSE ALL’ALBA dell’8 agosto del 1956, più di mezzo secolo fa, quando un montacarichi azionato al momento sbagliato andò a schiantarsi contro una trave d’acciaio, tagliando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. Divampò un incendio pazzesco che si sprigionò nelle gallerie dove erano al lavoro i minatori liberando fumo tossico, il quale invase e si propagò in breve tempo in tutta la miniera, tanto che già dopo pochi minuti il pozzo di estrazione dell’aria era già inutilizzabile.
Sul Corriere dell’informazione, il reporter Umberto Stefani racconta in presa diretta cosa accadeva, intanto, fuori: «Avvolti nelle coperte, seduti o sdraiati su ciglio della strada dinnanzi ai cancelli della miniera del Bois du Cazier, gruppi di persone hanno trascorso in veglia o in preghiera una notte di tregende. Notte di attesa, notte di immenso dolore: gente del Nord e del Sud, gente di ogni regione d’Italia: tutto il dramma della nostra emigrazione è spietatamente sintetizzato sul ciglio di questa strada». Intanto dalla città cominciano ad arrivare i camion dei pompieri, le ambulanze e le auto della polizia, arrivano i politici, i ministri del governo e anche il re Baldovino; ma le operazioni di soccorso sono lente, i due montacarichi per raggiungere i piani bassi sono stati distrutti dalle fiamme, e quando i soccorritori riescono ad arrivare a 800 metri di profondità trovano solo cadaveri gonfi e neri.
Quel giorno maledetto 275 uomini erano scesi nei sotterranei e 262 di loro morirono come topi, soffocati dalle esalazioni di gas. 139 erano italiani, il più giovane di 14 anni e il più anziano di 53. Solo tredici riuscirono a salvarsi. Dopo la tragedia venne introdotto nelle miniere belghe l’uso della maschera antigas.

IL GIORNO DOPO il giovane cronista Dino Buzzati scriveva sul Nuovo Corriere della Sera: «Provate, con l’immaginazione, a figurarvi quei 139 minatori italiani tutti in fila e dietro di loro le 139 famiglie, padri, madri, mogli, figli, fratelli. Quanti saranno? È come un paese intero, e neanche dei più piccoli. Queste centinaia, forse migliaia di creature, questa comunità di gente che parla come noi e ha facce simili alle nostre, è piombata in un’angoscia senza nome».
Alberto Gigli, trent’anni passati nel sottosuolo a scavare col martello pneumatico, esportato insieme a giovani come lui spesso reduci da anni nei campi di prigionia o alla disperata ricerca di lavoro, è uno di quegli italiani vissuti come prigionieri nei distretti minerari del Belgio in condizioni igieniche difficili, discriminati dalla popolazione locale e chiamati «macarones», di cui 867 morirono tra il 1946 e il 1963, sopravvissuto alla miniera e anche ai terremoti che hanno distrutto i paesi qui intorno, Arquata, Pescara del Tronto, Accumuli, Amatrice, che dopo un anno sono ancora e solo macerie. Mi mostra gli alberi di mele, quelli di prugne e di pere. «Le ho piantate nel 1980, quando sono tornato dal Belgio», e ancora di quegli anni lontani ripete con amarezza come una cantilena: «Non c’era altra scelta, non potevi neanche uscire dal paese, siamo stati costretti».

 

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