L’indicazione della compagnia dei trasporti parla di dieci ore. Nella realtà, per andare da Santiago fino a Carahue, possono servirne anche dodici per percorrere i settecentocinquanta chilometri che, dalla egocentrica capitale, permettono di inoltrarsi nella parte meridionale dello stato.

L’ingresso in quella che viene chiamata Araucanía, ovvero la nona regione del Cile, è evidente da quando in modo progressivo il paesaggio collinare fuori dal finestrino del bus diviene via via preponderante. Con l’arrivo a Carahue, cittadina di venticinquemila anime, l’immersione nella realtà culturale mapuche diviene considerevole: La Starria, Recoleta, Ñuñoa, Providencia ed altri quartieri niente male di Santiago, appaiono ben più lontani della semplice distanza geografica. A raccontare che a Carahue si è immersi in qualcosa di diverso contribuisce tutto, dalla topografia all’architettura, dalla qualità delle automobili circolanti agli sguardi degli abitanti, fino ad arrivare ai colori cangianti della bandiera mapuche presente quasi ad ogni angolo.

Ma non basta: a marcare la differenza, sono i minuscoli pulmini in circolazione almeno dalla fine dello scorso secolo, su cui bisogna salire per percorrere altri ventidue chilometri per giungere a Huapi Trovolhue, piccola comunità che si affaccia sull’oceano Pacifico. Affollati, lenti e affidabili come non mai, i vetusti automezzi permettono data l’assenza di velocità, di affondare lo sguardo verso l’esterno. I boschi rigogliosi si alternano ad abitazioni completamente in legno dando l’idea che la natura prorompente sia fonte di lavoro, guadagno e benessere. Ma non è esattamente così. «Non farti ingannare, quella che vedi non è bellezza. È un problema». Parole pronunciate da un’anziana signora che nello stracolmo minibus, suggerisce che la boscaglia, a tratti lussureggiante, nasconda ben altro. Difficile da credere, sovrastati come si è dalla meraviglia di una natura che tra una curva e l’altra propone colline flessuose come curve di Gauss e subito dopo l’acqua di una laguna celeste che si scioglie nel Pacifico. «Una volta qui trovavi alberi di faggio australe, mirto, cannella, alloro, tepa, olivillo ed altri ancora. Oggi, buona parte di questi sono stati soppiantati da pino ed eucalipto». Lei si chiama Tatiana Marivil, ed è originaria di Huapi Trovolhue, un piccolo villaggio che affaccia sulla omonima Humedales, una zona umida costiera incastonata tra la Cordillera di Nahuelbuta ed il Pacifico e formata da lagune, paludi di erbe alte, sottobosco e annesse praterie ripariali che si estendono su una superficie di milletrecentottanta ettari. È un ecosistema di valore, garantito da una diversità biologica che vanta una flora con oltre centosettanta specie di piante, ed una fauna con almeno centotrentaquattro specie animali, di cui ottanta alate. Tale complessità è oggi minacciata.

I rischi partono da lontano, come spiega la Marivil, studentessa all’ultimo anno di Ingegneria Forestale che ha abbandonato Santiago per tornare a casa: «Oltre i motivi personali, ho deciso di rientrare per continuare a proteggere il nostro territorio, esattamente come da anni fa la mia famiglia. L’ecosistema costiero e quello paludoso che in questo momento ci circondano, sono fortemente minacciati da problematiche di lungo corso che stanno diventando sempre più pericolose. Mi riferisco alle monoculture di pino e eucalipto impiantante in modo estensivo che hanno distrutto e rimpiazzato le specie native. Per intenderci, c’è sempre una differenza sostanziale tra un albero autoctono e uno che viene da fuori, questo perché tra le specie che compongono il bosco naturale, esiste una resilienza alle minacce di livello antropico assai diversa dalle piante forestali alloctone. Ad esempio, il pino a lungo andare acidifica il suolo con la resina che produce. L’eucalipto genera lunghe radici che possono arrivare nelle falde freatiche più profonde, modificando la disponibilità d’acqua. L’esito di questo si riflette sull’intero ecosistema, cambiando gli equilibri delle specie arboree di minori dimensioni e, conseguentemente, anche della fauna residente. Per la nostra comunità che vive in rapporto stretto con la natura circostante è un grosso problema». Ad essere intaccata non è solo la relazione tra sistema ambientale ed economico, ma anche quella tra cultura e spiritualità: «Abbiamo frutti selvatici ed erbe medicinali come murtilla e calafate che usiamo quotidianamente e che sta diventando sempre più difficile reperire. Stessa cosa accade anche per alcune delle nostre piante sacre, che nella cultura mapuche abbondano, come ad esempio la corteccia di Winter che è la nostra pianta principale e che rappresenta l’unione tra terra e cielo, che in lingua mapudungun, il nostro idioma, chiamiamo Ñuke Mapu e il Wenu Mapu. La usiamo durante le cerimonie per costruire il rehue, l’altare che utilizza lo sciamano». L’alterazione dell’ecosistema nelle zone umide comporta quindi un cambiamento drastico di ogni aspetto della vita dei residenti.

In un complesso gioco di relazioni industriali, a far la parte del padrone degli allevamenti arborei estensivi è l’azienda cilena Forestal Romero collegata alla connazionale Agrifor Ltda., la quale vende i suoi prodotti a Forestal Mininco, ovvero la sezione forestale del colosso CMPC, acronimo della Compañía Manufacturera de Papeles y Cartones, industria numero due al mondo nella lavorazione di cellulosa e carta. Facile comprendere quindi quali possano essere i rapporti di forza tra le comunità mapuche del territorio e tali industrie forestali. La situazione attuale scaturisce da una legislazione in piedi dai tempi della dittatura di Pinochet, il decreto legislativo 701 del 1974, noto come «forestal», il cui obiettivo era di promuovere lo sviluppo forestale del paese. L’esito fu che al netto dei danni recati dall’impianto di pino ed eucalipto, queste materie prime ancora oggi vengono vendute sui mercati esteri, per poi essere ricomprate sotto forma di prodotti elaborati, al doppio o al triplo del prezzo, facendo tornare alla mente le narrazioni che Eduardo Galeano in Le vene aperte dell’America Latina articolava in modo mirabolante.

Nonostante ciò, la comunità mapuche dell’Humedales, continua a combattere per preservare il proprio ambiente, cercando di costruire un futuro migliore per le nuove generazioni, come sottolinea la Marivil: «La fortuna accumulata dalle grandi industrie è stata possibile grazie alla devastazione degli ecosistemi naturali e all’impoverimento delle comunità colpite dallo sfratto verso zone più povere, che hanno un suolo impoverito dalla coltura intensiva. Per noi, come mapuche, l’industria forestale rappresenta in grande misura la maggior causa di rabbia, sconforto e impunità verso la nostra cultura e le nostre tradizioni. Ma continuiamo a lottare.

Nel 2020, la mia famiglia e la comunità, hanno portato a termine il progetto con cui la zona umida di Monkul, la grande duna di sabbia che divide l’oceano dalla nostra laguna, è divenuta sito Ramsar, ovvero area di importanza internazionale. Nel frattempo, grazie alla nostra fondazione che porta avanti le basi della cultura mapuche lafkenche, cerchiamo di proteggere e preservare la palude costiera. Lo facciamo perseguendo tre punti: mettendo al sicuro e conservando gli ecosistemi e la loro funzione ecologica, riscattando l’eredità culturale mapuche attraverso la rivitalizzazione del linguaggio e delle tradizioni, sviluppando piani di lavoro territoriale sostenibili con il turismo identitario e quello ecologico nelle sue varie forme. Con in testa l’idea di realizzare nel breve e medio termine, un’area protetta che, grazie ad un carattere di riserva interculturale, possa diventare nel lungo termine un santuario della natura ufficialmente riconosciuto».

Verso l’Humedal
L’anello perioculare rosso che circonda gli occhi gialli ed il becco dritto di colore rosso-arancio, donano uno sguardo tanto stralunato quanto simpatico al Pilpilén, un uccello abbastanza comune dalle parti di San Antonio, città che affaccia sull’oceano Pacifico nella regione di Valparaiso. Il Pilpilén, ovvero la beccaccia di mare americana, corre il rischio molto consistente di essere sfrattato per sempre dal suo habitat, le dune prossime alla spiaggia di Llolleo in cui si reca a cercare ostriche, cozze, vongole, lumache, echinodermi e granchi per cibarsene. Assieme a lui sono in pericolo sia un’infinità di altre specie volatili che gli abitanti del posto: animali ed esseri umani che vivono dentro ed attorno al Santuario Humedal Río Maipo, stanno per essere scacciati da un progetto portuale di enormi dimensioni che, insediandosi su quello già esistente, aspira a diventare il più importante del Cile.

Il Santuario ha una superficie di circa sessanta ettari dedicati alla conservazione della biodiversità, all’educazione ambientale e al salvataggio del patrimonio socio-ecologico della foce del fiume Maipo, ai cui lati sono insediati i comuni di Santo Domingo e San Antonio.

Pilpilén común, (ph. Fundación Cosmos)

L’Humedal è un luogo di incomparabile bellezza, dove albergano in varia modalità ben trentatré specie di uccelli costieri su un totale di quarantanove nel Cile e di duecentodiciassette nell’intero pianeta. Numeri ragguardevoli che spiegano l’importanza di questa zona umida, considerata tra le più rilevanti dell’intero paese anche perché inclusa in una rotta migratoria da e per il nord America: gli uccelli di passaggio sommati ai quelli autoctoni superano le centottanta specie presenti nel Santuario. Che è un habitat chiave per la nidificazione, il riposo, l’alimentazione e il rifugio per l’avifauna che lo abita e frequenta, contribuendo a mantenere un’alta biodiversità. Il progetto portuale che mette a repentaglio l’intera area ha una genesi politica che parte da lontano ed è stata confermata nel presente, come racconta Roberto Machuca Torres, pescatore locale a capo del Sindicato de Pescadores Boca del rio Maipo: «Fu deciso dal Presidente della Repubblica Sebastián Piñera con il decreto 130 nel 2010 e confermato nel periodo della Presidente Bachelet con il decreto 13. Ad oggi, il Presidente Boric sta chiedendo che si accelerino le procedure per iniziare a costruire. Tutti sono a favore e nessuno pensa ai danni che saranno causati, nonostante siano consapevoli che ce ne saranno. E la scusa di avere occupazione non regge. Sarà un grande porto tecnologico: dopo la notevole richiesta iniziale di manodopera per costruirlo, ne occorrerà molta meno. Come diciamo da queste parti, sarà pan por el dìa pero hambre para mañana. Esattamente come accaduto in altri, vedi quello di Buenaventura in Colombia».

Le parole di Torres non lasciano adito a dubbi, testimoniando come la comunità locale dei pescatori sia attiva nelle proteste. Fronte alla sede del sindacato che affaccia direttamente sul mare, campeggia un grande striscione con sopra scritto «Per le nostre radici, per il nostro futuro. No al Mega Porto», sintesi perfetta dell’attivismo che coinvolge non solo i pescatori e le loro famiglie, ma anche la Fundación Cosmos e il comune di Santo Domingo, che a diverso titolo amministrano l’Humedales. Va sottolineato di quale discrasia ci sia tra diverse parti dello stato cileno, che da una parte spinge per l’allargamento del porto mentre dall’altra sostiene politiche ambientali ben diverse, come evidenzia il supporto dato dal Ministero dell’Ambiente non solo all’istituzione del Santuario, ma anche del parco intercomunale che riguarda le amministrazioni di Santo Domingo e San Antonio, altri venti ettari che sommati ai precedenti sessanta diventano ottanta. Nel frattempo, come sottolinea Torres, il futuro non è affatto roseo: «Si prefigurano espropriazioni. Cacciare la gente da qui sarà terribile perché sono persone profondamente radicate in questo posto, con tradizioni, quotidianità e modi di lavorare. Ad esempio, se mi mandano via non saprei cosa fare. Esattamente come i miei compagni: siamo un popolo di pescatori che vive nel villaggio di Boca del Maipo, che è il cuore di San Antonio, da oltre duecento anni. Da allora lavoriamo sempre nello stesso modo. Perché è l’eredità del popolo indigeno, che si stabilì qui da questo lato del fiume Maipo. Parlo della cultura Llollea, che oltre a dare il nome all’unica spiaggia rimasta, ci ha insegnato l’arte della pesca del «chinchorro», un’antica tecnica che viene dal nord. Si pratica sia nel fiume che in mare con una speciale barca a remi per saltare le onde, con tre vogatori davanti ed un capo nella parte posteriore che getta la rete lungo la costa. Per recuperare la rete occorrono tra le otto e le dieci persone. È una tecnica autorizzata dal 2005 con un decreto. Non è una pesca estremamente redditizia, ma ci permette di sopravvivere ed è la nostra identità».

Nel tono quieto e deciso del capo dei lavoratori, si percepisce la fermezza di un’intera comunità: «La lotta che andremo a fare è opporci alla realizzazione del nuovo porto. Ci sono diversi modi con cui manifestare, ed a tal proposito abbiamo anche un avvocato che lavora con noi su questo aspetto. Le ultime negoziazioni non sono andate bene, perché vogliono prendersi tutto gratuitamente, danneggiando non solo i lavoratori, ma un comune intero. Parliamo di centocinquanta pescatori e delle loro famiglie, per un totale di circa seicento persone. In passato ci furono manifestazioni violente. Per ora siamo riusciti ad evitare che succedesse di nuovo, ma non so fino a quando. C’è rabbia: non vogliamo il megaporto, perché San Antonio è già sovraccarica con quello esistente. Arriverebbero più containers di quelli che girano nell’intero paese: in questo momento in tutto il Cile ce ne sono quattro milioni e mezzo e qui ne arriverebbero sei milioni. Perderemmo la spiaggia, l’acqua del fiume, il sostentamento economico, la nostra identità. Deve essere preservata la natura senza danneggiare i nativi, che in questo caso siamo noi. Siamo coloro che vivono del fiume, della spiaggia e del mare, dell’ecosistema che ci alimenta. Lavoriamo assieme alla Fundación Cosmos per fa sì che tutto questo non accada, perché anche i pescatori proteggono l’ecosistema in quanto ne siamo i diretti interessati. Perché non dovremmo prenderci cura di un luogo che ci dà da mangiare?».