«Dentro l’hotspot si vive male. I bambini e le famiglie stanno tutti insieme. Fanno dormire fuori anche i minori. Siamo troppi. Qui c’è troppa gente. Noi da qui non possiamo uscire, siamo come in carcere», racconta Mohamed Belhaj, 35 anni. Il ragazzo, di origine tunisina, è arrivato nell’hotspot di Lampedusa il 2 agosto. «Sono qua dentro da 20 giorni senza sapere dove andrò dopo. Lo chiedo sempre, ma non me lo dice nessuno. Non è la prima volta che provo a entrare in Italia, ho vissuto quattro anni in Sicilia prima di essere rimandato indietro in Tunisia», continua.

Ieri i cancelli della struttura di Contrada Imbriacola erano inusualmente aperti anche alla stampa in occasione della visita del prefetto Filippo Romano e del questore Emanuele Ricifari, entrambi in servizio ad Agrigento. «C’è una situazione di “totale scarico”. Fino a ieri avevamo circa 1.700 persone, adesso poco meno di 500. In giornata ne resteranno soltanto 100 che hanno problemi con le identificazioni, gruppi familiari che devono trovare sistemazione tutti insieme o minori non accompagnati residuali che verosimilmente sistemeremo domani mattina», dichiara Ricifali.

A chi rimane spetterà probabilmente il rimpatrio forzato, soprattutto in Tunisia. Per una «questione di ordine pubblico», spiega un mediatore presente nell’hotspot, alle persone non viene detto cosa accadrà loro quando saranno portate via dall’isola. Così alcuni restano dentro l’hotspot per giorni con il terrore di essere rimandati indietro. «Vorrei avere i documenti e poter vivere in Italia. Il mio sogno è non essere riportato nel mio paese, la Tunisia: adesso è molto pericolosa», dice ancora Belhaj. «Io sono partito dalla Libia, il viaggio è stato molto brutto, eravamo in 35. Abbiamo passato due giorni in mare. Una persona è morta, stava accanto alla tanica di benzina ed è morta intossicata. Non ricordo niente del nostro arrivo perché ero troppo traumatizzato dalla scomparsa del nostro compagno. Sto qui dal 14 agosto. Non so niente, neanche dove andrò dopo», spiega invece Amir Adil. Viene dall’Egitto.

«Mia moglie è incinta al quarto mese, non si può muovere dal letto, non riesce a camminare e non può mangiare il cibo che le danno. C’è troppa gente. Sei costretto ad aspettare per fare tutto, anche per andare al bagno. Siamo qui dall’11 agosto, a me dicono che sarò espulso ma io non posso lasciarla da sola», racconta Ali Alla, marito di Cautag Ajmi, entrambi provenienti dalla Tunisia. Secondo le autorità, però, l’hotspot non è mai stato al collasso da quando lo gestisce Croce Rossa. «Non siamo mai arrivati a riempire completamente la struttura anche se va detto che i numeri sono molto alti», dice Ricifari. I numeri hanno spesso triplicato, quadruplicato, quintuplicato la capienza effettiva arrivando a riguardare anche oltre duemila persone.