Hong Kong, al via il processo a Jimmy Lai
Asia Il magnate della stampa è accusato da Pechino di «collusione con le forze straniere» per il suo sostegno alla democrazia. In carcere da 1000 giorni, il suo Apple Daily è stato chiuso nel 2021: «Materiale sedizioso»
Asia Il magnate della stampa è accusato da Pechino di «collusione con le forze straniere» per il suo sostegno alla democrazia. In carcere da 1000 giorni, il suo Apple Daily è stato chiuso nel 2021: «Materiale sedizioso»
Non colpevole. Jimmy Lai sfida ancora le autorità di Hong Kong (e Pechino) e rifiuta l’accusa di «collusione con le forze straniere», ossia di avere cospirato contro il governo cinese per conto degli Stati uniti, e di avere diffuso idee sovversive attraverso l’Apple Daily, il quotidiano in lingua cinese di cui era editore, chiuso nel 2021 dopo che la polizia ne ha congelato tutti i beni e arrestato i più importanti giornalisti.
DOPO UNA SERIE di rinvii, ha preso il via ieri il processo contro Lai, finito alla sbarra proprio per il suo ruolo di editore: è accusato di «pubblicazione di materiale sedizioso» per gli articoli che documentarono nel 2019 lo scontro tra fronte di opposizione democratica e governo. Lai è stato incriminato ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale che Pechino impose all’ex colonia a giugno 2020, in risposta alle proteste di massa del 2019 nella città a favore delle riforme democratiche. Se colpevole, potrebbe essere condannato all’ergastolo.
Davanti ai tre giudici della Corte di West Kowloon, Lai è apparso stanco ma determinato: il magnate dei media ha compiuto 76 anni a inizio mese, festeggiando il suo quarto compleanno nella prigione di massima sicurezza di Stanley da quando gli è stata negata la libertà su cauzione per la prima volta nel dicembre 2020.
Il procedimento a carico del tycoon doveva iniziare a dicembre 2022, ma fu rinviato dopo che il governatore di Hong Kong John Lee decise di intervenire per impedire che venisse rappresentato dal legale britannico Timothy Owen, sulla base di un’interpretazione della legge sulla sicurezza nazionale, secondo cui gli avvocati stranieri possono difendere un imputato soltanto con l’autorizzazione del Chief Executive.
IN POCO TEMPO il suo curriculum giudiziario si è arricchito di condanne. Lo scorso anno è stato condannato a cinque anni e nove mesi di reclusione per il reato di frode relativa a una violazione contrattuale di un affitto. Nella primavera del 2021 altri due capi di imputazione per aver organizzato due proteste non autorizzate nel 2019 e aver partecipato a un’altra manifestazione nello stesso anno. Imputazioni formulate dei giudici di Hong Kong per debellare il movimento e le voci democratiche.
Il processo che si è aperto ieri dovrebbe durare 80 giorni e il governo dell’ex colonia si è attivato da tempo per evitare colpi di scena: la zona del tribunale è blindata e presidiata ventiquattro ore su ventiquattro da mille agenti. All’interno dell’aula, non ci sarà una giuria ma solo tre giudici scelti dal governo di Hong Kong. Così, il procedimento che vede imputato il magnate e attivista democratico rappresenta lo scontro tra l’autonomia del sistema giudiziario di Hong Kong (garantita dalla mini-costituzione dell’ex colonia britannica, la Basic Law) e la linea repressiva imposta da Pechino con la norma sulla sicurezza nazionale.
NON SORPRENDONO quindi le accuse e gli appelli lanciati dai governi stranieri e dalle ong, caduti nel vuoto. Human Rights Watch ha definito il processo «una farsa», mentre gli Stati Uniti chiedono l’immediato rilascio di Lai dopo oltre 1.000 giorni di ingiusta detenzione. La Gran Bretagna, attraverso il ministro degli Esteri Cameron, ha espresso preoccupazione per un processo «politicamente motivato». In risposta, Pechino ha commentato le reazioni americane e britanniche come una «flagrante interferenza straniera» in difesa di «un destabilizzatore anti-Cina».
Lai è arrivato dalla Cina a Hong Kong a 12 anni, nascosto nella barca di un pescatore. Aveva le tasche vuote, ma tanti sogni. A distanza di 60 anni poco è cambiato: desidera ancora la libertà. Per Hong Kong e stavolta anche per sé.
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