Hollywood come ti amo
Berlinale 66 Apertura del festival con l'omaggio al grande cinema americano dei fratelli Coen in «Ave, Cesare!». Ma è l’incantesimo di quanto accade sullo schermo, il vero oggetto di celebrazione dei registi, non la realtà. Con un gusto della miniatura che ricorda Wes Anderson
Berlinale 66 Apertura del festival con l'omaggio al grande cinema americano dei fratelli Coen in «Ave, Cesare!». Ma è l’incantesimo di quanto accade sullo schermo, il vero oggetto di celebrazione dei registi, non la realtà. Con un gusto della miniatura che ricorda Wes Anderson
Berlino 2016 apre con una lettera d’amore al cinema americano, firmata da due tra gli autori meno inclini al romanticismo che ci siano. Ave, Cesare! prende il suo nome dal titolo di un immaginario polpettone religioso in corso di lavorazione alla Capitol Pictures (già teatro dei tormenti dello sceneggiatore Barton Fink). Siamo nella Hollywood dell’inizio anni cinquanta, anche se il tono della voce fuori campo evoca l’hard boiled romantico/fatalista dei forties. Eddie Mannix (Josh Brolin) – devotamente cattolico, in una città controllata da immigranti ebrei- è una via di mezzo tra un capo dello studio e un «fixer» (nella realtà Eddie Mannix fu un famoso fixer di Luis B. Mayer e, come in Barton Fink, la MGM sembra la Major di riferimento).
Matrimoni improvvisati per salvare l’immagine della starlet edonista incinta per l’ennesima volta (Scarlet Johansson), promozioni sul campo di texanissimi cowboy canterini (Alden Ehrenreich) a rubacuori del melodramma upper class quando la star originale del film finisce di nuovo a disintossicarsi, crisi di nervi di raffinati registi mitteleuropei (Ralph Fiennes) alle prese con attori bifolchi, far passare un copione all’esame di 5 leader religiosi diversi….e l’occasionale osso gettato alle columnist assetate di sangue (Tilda Swinton, in una versione «gemelle» di Louella Parsons e Hedda Hopper) sono il pane che Eddie mastica flemmaticamente tutti i giorni.
Un po’ psicologo, un po’ prestigiatore, un po’ Tony Soprano, un po’ direttore di un asilo – la sua una dedizione totale alla macchina dello studio che, insieme allo stuolo di attori, comparse, registi, tecnici, segretarie, detective e avvocati, impiega anche una «persona generica» (Jonah Hill) da usarsi come jolly, quando c’è bisogno di un marito, della vittima di una causa, o di un filantropo che addotti un figlio illegittimo.
Si tratta – gli fa notare un signore della Lockheed che vorrebbe assumerlo in una fabbrica di aerei da guerra- di un lavoro ingrato, senza futuro (sta arrivando la televisione..) e, soprattutto, che non ha nulla a che vedere con la realtà. Ma è l’incantesimo che, da tutto quel casino, si materializza sullo schermo – non la realtà – a cui rendono omaggio i Coen, con un gusto della miniatura che ricorda Wes Anderson, in uno dei film più caldi e affettuosi che abbiano mai fatto. Un film da fan, e una cartolina comica d’America che evoca il viaggio nella politica washingtoniana Burnt After Reading – A prova di spia e la vignetta capitalista Mr. Hula Hoop senza mai sfiorare le vette di Il grande Lebowski.
A complicare ulteriormente la vita di Mannix arriva il rapimento del protagonista di Ave,Cesare! (George Clooney, più Victor Mature che Charlton Heston) ad opera di un gruppo criminale di cui fanno parte, insieme a Herbert Marcuse, una manciata di sceneggiatori comunisti che, tra le grinfie dei Coen e quelle di Mosca (che arriva in sottomarino, per una scena madre nelle tradizione della propaganda sovietica), sembrano più la banda bassotti che un eminente gruppo di intellettuali che hanno tenuto testa a McCarthy.
Secondo film sugli Usa della Guerra fredda su copione firmato dai Coen, quest’anno, Ave, Cesare! è , a sorpresa, il double bill perfetto di Il ponte delle spie.Buffissime scene di prosaico backstage sono intessute ai magnifici sogni prodotti dalla «fabbrica». Nelle ricostruzioni di balletti acquatici alla Esther Williams, di western musicali come quelli di Roy Rogers, di set indimenticabili (la casa sul mare di È nata una stella..) e di una splendida coreografia di marinai che omaggia Gene Kelly (con Channing Tatum, in smagliante forma Magic Mike), realizzate in alcuni dei teatri di posa storici di Hollywood, la satira abituale dei Coen si scioglie al contatto della loro love story con il cinema.
Ave, Cesare! è anche un omaggio alla straordinaria quantità di talento che animava gli ingranaggi dello studio-system. L’energia forsennatamente contagiosa di questo candy store che hanno amato fin da bambini (i fratelli sono nati negli anni ’50), il suo mix di magia e realtà terra terra quelli delle selvagge decostruzioni hollywoodiane di Mel Brooks, e che Robert Altman aveva saputo comunicare in un unico, oggi mitico, ininterrotto, movimento di macchina all’inizio di The Player.
Meno teorici di Mel Brooks e con meno cinismo di Altman (forse si stanno ammorbidendo. A New York sono appena stati oggetto, e complici, di una retrospettiva completa, al Film Form), anche i Coen inseguono la materia misteriosa, intangibile, che salda ciò che succede fuori e dentro allo schermo. Ma, in quel senso, Ave, Cesare! si ferma molto prima di grandi riflessioni poetiche del genere, come The Three Amigos, di John Landis.
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