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Helga Schubert, trincee di filiale rancore

Helga Schubert,  trincee di filiale rancore

Scrittrici tedesche «Alzarsi», da Fazi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 luglio 2023

Aveva già  ottanta anni e un lungo silenzio letterario alle spalle, quando nel 2020 Helga Schubert – una scrittrice defilata e un po’ smarrita della Germania orientale – presentò a Vienna le poche pagine di un nuovo racconto. Parlava di sé e della storia tedesca con ferite aperte e parziali guarigioni,  feroci condizionamenti e  precarie libertà. Lo aveva intitolato tra impegno e speranza Vom Aufstehen, dell’alzarsi.

Con questo testo sorprendente ottenne un inaspettato successo. Vinse nel 2021 il Premio Bachmann (la stessa Bachmann che l’autrice citava sommessamente nel titolo del racconto) e, pochi mesi dopo, pubblicò Alzarsi, «Una vita in storie», come annunciava il sottotitolo della edizione tedesca: 29 racconti di spessore diverso che riprendevano temi e atmosfere di quel primo testo variandoli nei tempi, nei ritmi e nelle prospettive (il volume è pubblicato in Italia: Alzarsi, per l’ottima traduzione di Marina Pugliano, Fazi editore, pp.195, € 18,00). In tutte le tessere, riproduce con precisione i dati della sua biografia, dalla nascita oscurata dalla Guerra fino alla convivenza con il marito, bisognoso di cure, in una casa nel Meclemburgo. Scrive quasi sempre in prima persona, con un linguaggio semplice, a tratti dimesso prediligendo narrazioni minute, osservazioni casuali, cambiamenti leggeri di stile, come sospinta da una «mite perseveranza» e dal piacere delle associazioni. A questo  dichiarato «tono minore»,  fa  però da contrappeso il piacere nascosto di citazioni che rompono gli argini di una storia privata. Sono i classici del realismo soprattutto tedesco o gli autori di una ribelle opposizione, da Brecht ad Anna Seghers al Gruppo 47, o, ancora, tracce ricorrenti del «romanzo di formazione», interventi lirici, accenni romantici.

Sullo sfondo, violenta e oppressiva, vi è massiccia la Germania, che domina tutti i frammenti della sua esistenza. Helga Schubert era nata a Berlino nel 1940, da una famiglia tedesca come tante altre: un nonno con un passato socialdemocratico, irresistibilmente attratto dal nuovo regime, una nonna troppo religiosa per lasciarsi contagiare dalla propaganda; il padre nazista che non ha mai conosciuto, fatto a pezzi da una granata sul fronte orientale, e una madre che condivide l’entusiasmo del marito per le gesta del Führer. Con la fine della guerra, ad attenderla c’è però solo la fuga: fuga dal lutto, dai russi e dall’inabissarsi del  sogno di una nazione vittoriosa. Trascina per chilometri la carrozzina con la sua bimba, rifiutando il suicidio e la resa e  si ritrova a vivere nella Repubblica Democratica Tedesca, ribelle, inquieta e profondamente infelice. In questo Stato caserma e prigione Helga Schubert studia, lavora come psicologa, scrive e costruisce trincee di parole e  rancore per difendersi da questa madre delusa e violenta che, almeno nel suo ricordo, non la aveva mai amata.

«Sono una figlia della guerra, una figlia di rifugiati, una figlia della divisione tedesca» scrive delimitando uno spazio esistenziale addensato di dipendenza. Solo la scrittura può aiutarla a diventare protagonista, suggerendole come «fare ordine» nelle esperienze, soprattutto, nel rapporto con la madre. A lei, eroe in bilico, dedica il libro che aveva tanto desiderato e nel ripetersi degli episodi riesce a trasformare questa figura disfunzionale, infantile e in perenne lotta col mondo, in un imponente personaggio letterario.

La cerca nei ricordi, come anche nelle tracce cartacee ricevute svogliatamente in  eredità dopo la sua morte a oltre cento anni. La interroga da figlia ma anche da psicologa che conosce i traumi e cerca di mettere nuovamente in moto quello che sembra fissato per sempre.  E partendo dalla fine di una vita e di una riottosa epopea scrive queste «Storie al microscopio – così le definisce-. Storie allo specchio. Quelle buone sono tragicomiche, non meno della vita; all’improvviso la storia mi fa passare dalla pietà all’ironia, dall’ironia al disprezzo, dal disprezzo all’empatia. E tutto questo proprio nel momento in cui mi ero adagiata in una visione».

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