I leader dimissionari dei Verdi tedeschi Ricarda Lang e Omid Nouripour
I leader dimissionari dei Verdi tedeschi Ricarda Lang e Omid Nouripour
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Il tramonto dei Verdi senza identità

Germania La vera e propria agonia del partito ecologista ha avuto inizio nel gennaio del 2023 in un piccolo borgo agricolo del Nordrhein-Westfalen di nome Lützerath
Pubblicato circa un'ora faEdizione del 28 settembre 2024

L’intero direttivo dell’organizzazione giovanile dei Grünen non solo si è dimesso come i due segretari dei Verdi Omid Nouripour e Ricarda Lang dopo il disastro elettorale in Brandeburgo, ma ha anche annunciato l’uscita da un partito sulle cui posizioni è per loro ormai impossibile convergere, chiuso ad ogni politica sociale incisiva e del tutto disinteressato a proporre un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello attuale. Queste le motivazioni elencate in una lettera indirizzata dai giovani dissidenti alla direzione del partito nella quale si annuncia l’intenzione di dare vita a una nuova indipendente organizzazione giovanile nettamente schierata a sinistra. È più l’esito di un lungo attrito che non una conseguenza della disfatta elettorale nei tre Länder dell’Est dove si è votato. Ma è comunque un segnale assai nitido della declinante parabola verde.

Cadute, sbandamenti, conflitti interni, a partire da quello originario tra fondamentalisti e realisti, nella storia dei Grünen tedeschi non sono mai mancati. Ma la vera e propria agonia del partito ecologista ha avuto inizio nel gennaio del 2023 in un piccolo borgo agricolo del Nordrhein-Westfalen di nome Lützerath. Lì si consumò lo scontro frontale tra un esteso movimento ambientalista e le forze dell’ordine impegnate nello sgomberare il campo per l’ampliamento della già immensa miniera di lignite posseduta dal colosso minerario Rwe.

Il carbone lì estratto (contrariamente al parere degli esperti non di parte che non lo ritenevano indispensabile) avrebbe dovuto compensare l’interruzione del flusso di gas proveniente dalla Russia sanzionata in seguito all’invasione dell’Ucraina. Il governo di Berlino compreso il vicecancelliere verde Habeck non mosse un dito in favore dei contestatori, fece radere al suolo Lützerath, malmenare i manifestanti e allargare la miniera.

Il vertice dei Grünen balbettò allora di avere ottenuto in cambio una uscita anticipata della Germania dal fossile mentre contestualmente scendeva a patti e con quel che restava del nucleare dopo lo stop deciso da Angela Merkel in seguito al catastrofico incidente nella centrale atomica di Fukushima in Giappone nel 2011. Una decisione storica che andava a coronare la lunghissima lotta dei Verdi contro la produzione di energia nucleare. La congiuntura si presentava straordinariamente favorevole: i temi climatici occupavano un posto di prima fila, sforzi a favore dei migranti non furono fatti mancare e la barriera contro la destra radicale era solida e invalicabile. Pace non era parola sospetta.

Con il ritiro di Angela Merkel e poi con l’invasione di Putin in Ucraina, tutto cambia. Il fabbisogno energetico e l’escalation bellica colpiscono duramente la Germania e in particolare i due temi storici del partito verde: la lotta contro le emissioni e il pacifismo. A dire il vero l’abbandono delle posizioni radicalmente pacifiste dei Grünen era già stato imposto da Joschka Fischer ministro degli esteri e vicecancelliere verde nei governi Schröder tra il 1998 e il 2005, coinvolgendo Berlino nei conflitti in Afghanistan e Kosovo. Ma allora ancora non si parlava, come invece oggi, del massiccio riarmo tedesco e di un ritorno in grande stile della Germania come protagonista militare.

Non è cosa di ieri neanche il formarsi e l’affermarsi di un ceto politico professionale di stampo classico scarsamente condizionato da quelle mobilitazioni di base, da quelle forme di autorganizzazione della società civile, da quelle iniziative politiche civiche, che avevano rappresentato la novità della formazione verde e favorito la sua diffusione capillare. Il divario tra questi due mondi si è approfondito sempre di più lasciando impallidire quando non degenerare del tutto l’immagine di un partito completamente appiattito sull’esistente.

Non a caso l’imbarazzante motto del suo ultimo congresso proclamava stoltamente che «la nostra ideologia è la realtà». Se l’affermarsi dei Verdi nella sfera dell’establishment, pur senza mai divenire davvero un partito popolare come avrebbero ingenuamente sperato, ne ha favorito per anni la crescita ed ampliato lo spazio di azione politica, la perdita di identità, la parziale eclissi delle tematiche ecologiche e l’oggettivo spostamento a destra non potevano che riflettersi disastrosamente nei risultati elettorali. Dalle elezioni europee in poi è stato un susseguirsi di clamorose disfatte.

Ma assai spesso, la pura e semplice permanenza al governo, dove i Grünen detengono l’economia e gli esteri oltre alla poltrona di vicecancelliere, viene percepita come un punto di forza, una compensazione dello scarso successo nella società, una leva con la quale ricostruire influenza e recuperare seguito. È una inclinazione molto insidiosa e quel che resta del verde rischia grosso. Per l’Europa il tramonto dell’unica forza ecologista che contasse realmente in un paese forte dell’Unione è un grave segno di involuzione.

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