Harry Piel, il grande sconosciuto
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Harry Piel, il grande sconosciuto

Giornate del cinema Muto di Pordenone Una retrospettiva dedicata a quel poco che resta della sterminata filmografia del regista tedesco
Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 ottobre 2023

Ci sarebbe da scommettere che quasi nessuno, anche trai cinefili più agguerriti, ricorda il nome del tedesco Harry Piel (1892 -1963) a cui Le Giornate del cinema Muto di Pordenone dedicano una corposa retrospettiva di quel poco rimasto della sua sterminata filmografia. Eppure è stato l’artefice di un centinaio di film come regista, sceneggiatore e produttore oltre che averne interpretati una buona parte. Si tratta insomma di un caso interessante e poco noto di un «auteur» tuttofare ante litteram, dato che ha iniziata la sua carriera giovanissimo nel 1912 con Schwarzes Blut (Sangue nero) e l’ha conclusa, quarant’anni dopo, nel 1951 con Der Tiger Akbar (La tigre Akbar).

Ma andiamo per ordine. Nato in un sobborgo di Düsseldorf, figlio di un oste, il giovane Harry aveva l’avventura nel sangue e già durante il periodo del ginnasio si era messo in testa di unirsi ad un circo itinerante mentre nel 1911 lo troviamo a Parigi con l’intenzione di diventare pilota acrobatico. Finalmente a mettere fine ai sogni giovanili, è il nuovo medium del XXI secolo che, l’anno dopo, lo conquista, per trasformarlo nel maggior pioniere del cinema d’avventure nella Germania guglielmina. Durante la I° guerra mondiale gira un gran numero di action movie mozzafiato con cui si conquista la fama del «regista-dinamite» grazia al fatto che tramite un amico ingegnere-artificiere veniva a sapere dove avvenivano le demolizioni, con esplosivi, di case o altro, che il nostro intraprendente autore filmava in anticipo e incorporava abilmente nei suoi lavori. Inoltre, in una curiosissima commedia di proto-fantascienza, Die große Wette (La grande scommessa, 1915), purtroppo perduta, passa anche davanti alla macchina da presa – qui interpreta, ancora occasionalmente, il ruolo di un robot in una futuribile metropoli americana del 2000 governata da una tecnologia avanzatissima ma alienante.

Con Unter heißer Zone (Ai tropici, 1916) le effervescenti cine-avventure di Piel si arricchiscono di spettacolari scene con animali selvaggi, talvolta da lui stesso addestrati, come di frequente accadrà d’ora in poi. Di lì a poco, nel biennio 1918-19, dirige anche otto episodi della celebre serie, prodotta da Joe May, incentrata sulle inchieste di Joe Deebs, il primo detective tedesco modellato sullo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle – uno di questi film verrà mostrato anche a Pordenone, il non eccezionale Das rollende Hotel (L’hotel su ruote, 1918).

Terminata la guerra, con Der große Unbekannte (Il grande sconosciuto, 1919) ha inizio una intensa carriera di attore, anglicizzando spesso il nome, nel ruolo dell’avventuroso «Harry Peel» e ciò lo portò ad essere definito, con un po’ di esagerazione, il Douglas Fairbanks tedesco (o addirittura europeo). Negli anni Venti, producendosi da solo, dirige diversi film fuori dalla Germania realizzando, tra l’altro – cosa molto inconsueta per l’epoca – tre coproduzioni con la francese Gaumont, società a cui aveva brevemente lavorato in veste di volontario al tempo del suo giovanile soggiorno parigino.
All’avvento del sonoro, è uno dei pochi che continua con inalterato successo la carriera di «Dir-actor» (per usare un termine americano), già a partire dalla commedia Er oder ich (Lui o io, 1930), costruita sul topos del Doppelgänger, del sosia, usato anche in Sein größter Bluff (Il suo bluff maggiore, 1927). Comunque, dalle sue tradizionali storie molto eccentriche e fantasiose, caratterizzate da un acrobatico, forsennato ritmo «all’americana», passa, negli anni Trenta, ad uno stile più realistico e pacato, senza abbandonare i temi che gli avevano conferito per due decenni grande notorietà non solo in patria. Svariando trai generi già frequentati, si susseguiranno, allora, commedie d’avventura e opere avveniristiche, thriller polizieschi e i film circensi e con belve feroci.

All’ascesa al potere di Hitler, Piel si iscrisse al partito nazista nel maggio 1933 rimanendo sempre fedele al regime sino alla fine ma nel 1939 la sua casa di produzione venne nazionalizzata e Panik (Panico, 1940-43, poi finito e editato dieci anni dopo con il titolo Gesprengte Gitter) venne vietato dalla censura per una rappresentazione troppo realistica dei raid aerei. E per una sfortunata legge del contrappasso, proprio a seguito di un bombardamento aereo, il «regista-dinamite» perse i negativi di 72 suoi film, tra cui la quasi totalità dei muti.

Alla sconfitta del nazismo, viene accusato di collaborazionismo, imprigionato per sei mesi e condannato a non poter lavorare per cinque anni. Quando realizzerà nel 1951 il suo ultimo film, Der Tiger Akbar, è ormai fuori tempo massimo. Abbandonerà presto il cinema per morire nel 1963 dimenticato e quasi povero all’età di 70 anni.

La parte restante della filmografia muta di Piel è stata restaurata di recente dal Filmmuseum di Düsseldorf, la sua città natale. Le opere salvate, comunque, servono piuttosto bene a illustrare le caratteristiche stilistiche e i generi frequentati dal nostro autore, anche se è molto probabile che vengano a mancare dei tasselli importanti nel complesso di un opus che ha pochi eguali nel cinema tedesco per continuità e vastità.

Si inizia – procedendo cronologicamente – con una delle sue prime produzioni, Erblich belastet? (Tarato di famiglia? 1913) ambientato in una fantasiosa America, come spesso nel cinema di Piel, e caratterizzato da sequenze di inseguimenti di cow-boy quasi fosse un primigenio krauti-western. Già più compiuto e cinematograficamente valido risulta il successivo Das Teufelsauge (L’occhio del diavolo, 1914), un giallo ambientato tra Francia e Inghilterra sul furto e il ritrovamento di una gemma, chiamata appunto l’occhio del diavolo, in cui si mostra tutta la vasta gamma delle «sensazioni» atletiche e non, messe in scena dal nostro regista: salti spericolati dai ponti, inseguimenti sfrenati d’automobili, arditi arrampicamenti su pali telefonici, ciminiere o quant’altro, sino all’esplosione in una fabbrica abbandonata – a ciò si aggiunge l’esibizione di un apparato tecnologico molto up-to-date per l’epoca, in grado di consentire un rudimentale spionaggio telefonico e una confessione finale resa via dittafono.

Non è proprio un investigatore ma è come se lo fosse il protagonista di Das Abenteuer eines Journalisten (L’avventura di un giornalista, sempre del 1914) in cui si varia il plot di una storia d’amore tra l’eroe e la figlia di un ingegnere a cui viene rubato una invenzione sensazionale – un dispositivo senza fili per far scoppiare le mine sottomarine – da parte di una banda di malviventi chiamata la Medusa. Tra gli inseguimenti vari che costellano il film, splendido quello in cui appare la Ferrovia sospesa di Wuppertal, la più antica di questo tipo al mondo. Coincidenza della sorte: anche un altro cineasta di Düsseldorf, il giovane Wim Wenders, molti anni dopo ambienterà lì, nella Wuppertaler Schwebebahn, una sequenza di Alice nelle città (1973).

E veniamo ai quattro lungometraggi superstiti degli anni Venti che impreziosiscono la retrospettiva anche per la presenza di Piel come attore-mattatore-rubacuori. Rivalen (titolo it.: Il rivale del circo,1923) è un divertente action movie ricco di elementi fantascientifici come un robot teleguidato o un sottomarino-nascondiglio, oltre a una sala da ballo fatta a gigantesco Moloch – su scenografie del celebre architetto espressionista Hermann Warm – che ricorda visivamente molto da vicino una celebre sequenza del successivo Metropolis (1926) di Fritz Lang. Anche qui il protagonista deve lottare – bocca a cuoricino – contro un molesto scienziato pazzo, Ravello, che ha rapito la bella figlia di un inventore rivale. Già presentato a suo tempo a Pordenone nel 2007, Rivalen aveva una seconda parte, Der letzte Kampf (L’ultima battaglia, 2023) in cui la storia proseguiva ma che purtroppo risulta ancora a tutt’oggi perduta.

Intrigante per l’iniziale spunto metacinematografico della storia – il protagonista è l’autore di un best seller, adorato dalle donne, in cui compaiono dei personaggi che poi agiscono nel film -, Der Mann ohne Nerven (tit. it: L’uomo dai nervi d’acciaio,1924) è la prima delle co-produzioni realizzate da Piel con la francese Gaumont e purtroppo manca dei due atti finali degli otto complessivi. Il che ne rende oggi più controversa la valutazione del risultato finale che non sembrerebbe però dei migliori.

Entrambi scritti da Erik Galeen – il grande sceneggiatore (e regista) del cinema fantastico tedesco che qui si impegna in soggetti assai diversi dai suoi più consueti -, Zigano, der Brigant vom Monte Diavolo (Zigano, il brigante di Monte Diavolo, 1925) e Sein größter Bluff (1927) rappresentano, infine, due delle perle più rappresentative nella filmografia di Piel. Il primo, un’altra coproduzione con la Francia ma girata in Italia in una Tivoli facilmente riconoscibile ancor oggi, è un film storico e d’avventura, ambientato in epoca napoleonica, che ricorda molto da vicino (questa volta in pieno!) i grandi capolavori hollywoodiani di cappa e spada interpretati da Douglas Fairbanks come Il segno di Zorro (1920, di Fred Niblo), I tre moschettieri (1921 sempre diretto da Niblo) oppure Robin Hood (1922) di Allan Dwan e in cui l’attore-regista tedesco dà il meglio del suo istrionismo attoriale.

Il secondo, invece, è un giallo ambientato in gran parte a Nizza dove Piel si sdoppia in due fratelli per risolvere il caso di un furto di un preziosissimo gioiello in procinto di essere venduto ad un ricco Maragià indiano (Kurt Gerron, il celebre comico ebraico trucidato poi in campo di concentramento). Il colpo è stato perpetrato da un affascinante famme fatale, interpretata, guarda caso, da una giovane attrice lì lì per diventare, a breve, l’Angelo azzurro di sternberghiana memoria, la divina Marlene Dietrich. Una ottima conclusione, dunque, per questa retrospettiva su una personalità che, pensiamo, merita un posto non proprio secondario all’interno del cinema del suo paese (ma non solo lì). E che invita a (ri)vedere anche le opere nel sonoro di Harry Piel.

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