Hardy, l’ultima storia è per i diseredati
Pare che la moglie fosse furiosa. Il medico personale di Thomas Hardy raccontò di averla vista scaraventare il libro sul pavimento gridando al marito di non volerne più sapere del suo lavoro.
Durante un pranzo zittì un ospite entusiasta dicendo che quel libro era il primo di cui lo scrittore non le avesse chiesto di leggere il manoscritto e che se lo avesse fatto certo non sarebbe mai stato pubblicato, o almeno non senza parecchie correzioni. Aggiunse, lei figlia di un magistrato andata in sposa al figlio di un muratore, che stava attirando su di loro la riprovazione sociale di tutta la contea.
Era una donna bizzarra e intelligente; nutriva ambizioni di autonomia. Molti la descrivono infelice nel matrimonio, ma in quello scorcio del 1895 l’uscita di Jude l’oscuro, tradotto in italiano già nel 1904 e ora proposto per la prima volta da Feltrinelli («Universale economica – I classici», a cura di Enrico Postiglione, pp. 582, € 14,00), sembrò tradirla con crudeltà chirurgica, toccarla in un’intimità indifesa.
La ferivano i ricordi riverberati dal mestiere di Jude lo scalpellino, restauratore di chiese come il giovane architetto Hardy quando lo aveva conosciuto a Boscastle? O erano invece i dettagli di sé che rivedeva tanto in Arabella quanto in Sue, le due donne diversamente scandalose, per libertà dei costumi l’una e delle idee l’altra, intorno a cui si avvita l’esistenza del protagonista? O si trattava più semplicemente delle pagine così spinose che suo marito dedicava al matrimonio?
Certo non era l’unica a condannare quel romanzo destinato a rimanere, per volontà del suo autore, l’ultimo firmato da Thomas Hardy.
«Io spesso comincio una storia con l’intenzione di farla più allegra e luminosa del solito; ma presto arriva la questione della coscienza e non mi sembra giusto, nemmeno nei romanzi, smentire volontariamente le proprie convinzioni. Ogni commedia è una tragedia, se soltanto guardi abbastanza in profondità» spiegava Hardy mentre scriveva Tess.
Esattamente come Tess, ma con più ferocia di Tess, anche con più disperazione, Jude l’oscuro fu per i suoi contemporanei e resta ancora oggi per noi un pugno sferrato in piena faccia.
Composto tra l’inverno 1894 e la primavera 1895, uscito in fascicoli mensili a cavallo dei due anni con numerose varianti rispetto al manoscritto, riportato alla lezione originale dalla prima stampa in volume, Jude l’oscuro fu subissato come Tess da polemiche feroci e ritenuto osceno.
Benché non pochi recensori concedessero di trovarsi davanti a «un’opera di genio» uscita «dalle mani di un Maestro», il romanzo era secondo molti «gigantescamente brutto» e «pericolosamente prossimo alla farsa», addirittura «maledettamente indecente»: un «incubo vergognoso» per il lettore e «una caduta deplorevole» nel percorso dell’autore.
Esattamente come Tess, il libro ottenne uno straordinario successo di pubblico su entrambe le sponde dell’oceano. Ma facendo danzare i suoi personaggi al ritmo ferreo di una «quadriglia», incrociando i loro passi tra riluttanza e attrazione, istinto e norma, carne e intelletto Thomas Hardy intendeva raccontare solo il conflitto tra unione corporea e spirituale dei due sessi, tra legame naturale e vincolo suggellato dalla religione o dalla legge?
Jude e Arabella, Phillotson e Sue, le quattro figure che nelle pagine del romanzo si inseguono e si sfuggono, si fronteggiano come disposte sopra una scacchiera per poi indietreggiare strattonate da un burattinaio invisibile non sono che pedine di un gioco a tema? La storia narrata da Hardy è in realtà molto più complessa.
Il titolo pensato per il romanzo era all’inizio The Recalcitrants, divenne poi The Simpletons e Hearts Insurgent. Solo in volume Hardy sceglierà il definitivo Jude the Obscure, che dal plurale dei primi tre passa al singolare e anzi concentra l’attenzione del lettore su un unico personaggio.
L’aggettivo «oscuro» allontana il fuoco prospettico dalla questione matrimoniale, cui sottendono sia «restii» che «ribelli» e «sempliciotti», puntandolo su quell’emancipazione sociale cui aspira l’orfano Jude; allo stesso tempo dialoga apertamente con la magica «città di luce», Christminster ovverosia Oxford, in cui già da bambino il protagonista immagina ingenuamente che avrà accesso agli studi universitari trovandovi la sua via di fuga dal recinto buio dei vinti.
«Io non ero adatto alla lavorazione della pietra, non sono mai stato abbastanza robusto perché mi riuscisse, per esempio, di posare in opera i blocchi per conto mio. E invece sentivo che c’era un altro campo per il quale avrei potuto dimostrare di essere tagliato, se me ne fosse stata data l’opportunità. Ero bravo ad accumulare e trasmettere idee» riflette Jude arrivato alla fine della sua tragica storia.
Il libro «più gravoso» di Thomas Hardy, così lo definisce Virginia Woolf nel celebre saggio qui riprodotto in appendice, ma anche il suo più rivoluzionario e singolare, splendidamente isolato quanto Cime tempestose nel paesaggio letterario dell’Inghilterra vittoriana, racconta non tanto il conflitto sociale tra maschile e femminile, ma più ampiamente quello davvero insanabile tra opportunità e inclinazioni, coercizione e libertà, desiderio e destino.
Restando con i piedi piantati nel suo Wessex, ma spostando lo sguardo dal mondo rurale alla working class l’autore narra l’esistenza dolorosa e così attuale dei diseredati della terra.
«Benché non sia un romanzo con un intento, credo che si rivelerà un romanzo che “fa” per l’umanità molto più di ogni altro che ho scritto» confessava spiegando come la sua «tragedia» fosse rivolta a «coloro nella cui anima il ferro dell’avversità è entrato profondamente».
Se il vero «contrasto» diventa quello «tra la vita ideale che un uomo aspira a condurre e la squallida vita reale cui viene condannato», Jude non è solo uno schiaffo ma un atto di denuncia e un gesto di pietà.
Lo sgozzamento di un maiale, il colpo di grazia a un leprotto preso nella tagliola, la liberazione di due coppie di piccioni da una gabbia: Hardy colloca queste tre scene come erme alle estremità e al centro del testo, né è difficile comprenderne il disturbante significato di mise en abîme.
Abbondano nel romanzo, la cui atmosfera sapientemente vira come in Tess dall’idillio all’horror al melò, sequenze e luoghi e oggetti disposti con funzione simbolica in figura di allusiva simmetria, basti l’immagine dei tre roghi che ugualmente rimandano all’abiura di ogni personale aspirazione.
L’intero libro, spartito in sei capitoli corrispondenti alle principali località in cui la storia si svolge, appare costruito secondo una geometria esatta. Ne sostengono la vertiginosa architettura, fili di ragnatela solidi come cavi d’acciaio, gli infiniti spostamenti – a piedi, in treno, su carretti di fortuna, in omnibus a vapore, in carrozza – pervicacemente compiuti dai personaggi attraverso le sue pagine.
Mettono perciò malinconia, oltre all’endemica frammentazione del periodare sinfonico di Hardy in segmenti quasi jazzistici, le non infrequenti distonie della traduzione italiana.
Perché mutare in «del grasso» un pezzo di carne di maiale, nella fattispecie un pene dalla valenza non inerte in una scena decisiva del testo? O definire con insistenza «amanti» due innamorati che non si toccheranno almeno per i primi tre quarti del romanzo? Un edificio scolastico poteva costituire un «plesso» nell’Inghilterra vittoriana? E un semplice nastro diventare un futuribile «nastro adesivo»? L’aggettivo «schizzinosi» è sinonimo di scrupolosi? E «esilarante» di eccitante?
Né è possibile enumerare gli inserti e le espunzioni arbitrarie della frase, le distorsioni di senso («disse qualcosa a uno degli operai» equivale a alcune parole appena dette a una compagna?), gli scivoloni della grammatica.
«Se Mr. Hardy non avesse scritto nessun altro libro questo lo collocherebbe comunque alla testa dei romanzieri inglesi» dichiarava il giovane H.G. Wells nella sua recensione a Jude the Obscure. Qualora si affidi a questa traduzione difficilmente il lettore italiano potrà dire la stessa cosa.
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