Cultura

Hanif Abdurraqib e la «casa» dell’identità nera

Hanif Abdurraqib e la «casa» dell’identità neraUn ritratto del poeta e critico musicale Hanif Abdurraqib tratto dalla sua pagina web: www.abdurraqib.com

L'intervista Parla l’autore di «Finché non ci ammazzano», una raccolta di interventi intorno alla musica edita da Black Coffee. «I testi del rap sono come finestre narrative aperte su vite trascurate. Ascoltarli equivale a fare un giro nelle viscere di una città. Anche gli storici lavorano così, immersi in ciò che narrano»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 17 agosto 2021

In una conferenza tenuta nel 1965 alla Cambridge University, e ripresa nel film I Am Not Your Negro (2016), James Baldwin spiegava come il racconto pubblico orchestrato dai dominanti, in questo caso i bianchi nella società americana, distrugga «il senso della realtà» dei neri impedendogli di riconoscere se stessi nell’identità del Paese in cui sono nati. «Non puoi crescere identificandoti con Gary Cooper che uccide gli indiani e poi scoprire che l’indiano sei tu», rifletteva il celebre scrittore e attivista nero scomparso in Francia alla fine degli anni Ottanta.

Parole che mezzo secolo più tardi sembrano interrogare ancora l’esperienza quotidiana di milioni di afroamericani come illustra compiutamente un libro importante e a suo modo eccentrico come Finché non ci ammazzano (pp. 310, euro 18, prefazione di Eve L. Ewing, traduzione di Federica Principi) del poeta e critico Hanif Abdurraqib con cui si inaugura la collana Americana di Black Coffee, destinata, accanto a quelle già dedicate alla narrativa e alla poesia, a raccontare «attraverso il sé» la complessità dell’America di oggi.

Bizzarro e affascinante il volume del 38enne intellettuale di Columbus, Ohio, lo è prima di tutto perché raccogliendo una serie di interventi redatti tra il 2016 e il 2017 e pubblicati su riviste musicali come sulla Paris Review e il New Yorker, indaga la società statunitense attraverso la musica e le traiettorie di artisti e musicisti, da Prince a Springsteen, da Nina Simone a Marvin Gaye, passando per Notorious B.I.G., il rock e il punk. Allo stesso modo, questi interventi non hanno mai un aspetto formale, intrecciando analisi e toni più lirici all’eco della storia dell’autore, al suo percorso di giovane nero. L’esito è una sorta di romanzo di formazione attraverso la musica che muove verso il racconto di una condizione più generale, quella di milioni di giovani afroamericani che solo nell’ultimo decennio hanno visto susseguirsi la presidenza Obama e quella di Trump mentre centinaia di loro coetanei continuavano a cadere per mano di un agente, spesso bianco.

Il titolo del libro si ispira a un biglietto che ha letto a Ferguson, nel Missouri, dove un poliziotto uccise nel 2014 il diciottenne Michael Brown. Cosa significa guardare al futuro, e al presente, a partire da tutto ciò?
Per natura non sono una persona molto ottimista. Ma penso che ciò che alcuni considererebbero una mancanza di ottimismo è molto radicata nella mia esperienza del presente. Così guardo al futuro con una speranza un po’ tesa e tenue allo stesso tempo: mi aspetto il dopo, ma rimango immerso in quanto accaduto prima.

Lei spiega come la musica sia stata per molti versi la via che ha indicato la libertà ai neri americani e «la casa» dove trovare rifugio, dove esprimere le proprie emozioni. Come si vive dentro questa casa e quale il rapporto tra le diverse generazione, dal blues al rap che l’hanno popolata?
Penso di essere stato abbastanza fortunato da essere circondato non solo dalla musica, ma da persone di varie generazioni che hanno amato e tenuto molto alla musica. E quindi una grande parte della mia attitudine verso la vita non riguarda solo trovare una casa nelle canzoni, ma anche trovare una casa nelle persone che amano le canzoni. Le persone che mi amano, che hanno portato quelle canzoni alla mia porta. Sembra di costruire un lignaggio per questa via: amare la musica mi offre l’opportunità di trasmettere qualcosa al di là di me stesso.

A fare da ideale contrappunto ai testi ci sono una serie di frammenti dedicati a Marvin Gaye, non solo alla lucida determinazione di «What’s Going On», forse il suo album più politico, ma al suo intero percorso. Il suo rapporto con Gaye è sintetizzato in una frase: «In America non c’è un minuto in cui non mi senta come se stessi combattendo». Cosa rappresenta ai suoi occhi?
Il mio rapporto con Marvin è molto complesso. Penso che sia difficile onorare la pienezza della sua personalità concentrandosi solo sulla sua musica. Rispetto al suo percorso, c’è stato chi ne era deluso, ma anche chi era disposto a usarlo come una sorta di musa. Chi voleva che fosse migliore, Marvin ha fatto i conti a lungo con i suoi demoni interni accelerati, in parte, dagli eccessi dell’America stessa. Ma poi era anche sempre in grado di sorprenderti. Muoversi nel mondo con tutto ciò intorno crea qualcosa che non può essere catturato solo con le parole, ed è quello che ho cercato di fare parlando di lui.

Nel libro racconta di come Obama abbia invitato alla Casa Bianca figure della musica nera come, tra gli altri, Busta Rhymes, Chance The Rapper, Alicia Keys, Janelle Monáe, Pusha T e Common, suggerendo che forse non abbiamo capito tutto di quella stagione, di una presidenza che ha comunque inciso profondamente nell’auto-rappresentazione di una parte del Paese.
A lungo ho pensato che della stagione di Obama avrei certo ricordato qualcosa di più grande del fatto che abbia fatto entrare i rapper alla Casa Bianca, ma che aver aperto la porta al rap e alla sua estetica non fosse stato qualcosa di marginale. Ora penso però di essere cambiato molto da quando ho scritto quell’articolo. La politica della rappresentazione da sola non serve a molto, non aiuta davvero le persone, tranne quelle che si trovano al vertice. E spesso genera un contraccolpo, qualcosa che cerca di riprendere il controllo, come abbiamo visto con Trump.

La riflessione sul fenomeno del rap attraversa tutto il suo libro, in questo senso i tempi sono ormai maturi per definire, al di là delle mode e della commercializzazione, il significato non solo musicale di tutto ciò: oltre alla rabbia, la gioia e la festa cosa ci dice degli ultimi trent’anni di vita dell’America nera?
Rappresenta, tra le tante altre cose, una sorta di archivio della cronaca, quella più dimenticata. A volte, anche se non sempre, i rapper sono come delle finestre narrative spalancate su delle vite trascurate. Ascoltare i loro testi può offrire un’esperienza in qualche modo simile a quella di leggere un giornale o fare un giro dell’interno di una città. A volte gli storici lavorano così, immersi letteralmente nel «genere» che vogliono raccontare.

Nel corso della narrazione, lo sguardo del critico incrocia spesso quello dell’attivista: e la musica che rapporto ha con quanto sta avvenendo in America?
Non so se mi piacerebbe attribuire all’arte l’obbligo di avere un messaggio per capovolgere i tempi, ma credo che la musica possa lavorare in tandem con quanto avviene, aggiungendo la gioia all’impegno. Un po’ come è accaduto con «Alright», la canzone di Kendrick Lamar che è diventata un simbolo per i giovani attivisti di Black Lives Matter.

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