La violenza è sempre più fuori controllo ad Haiti. Solo lo scorso mese sono state 1.108 le persone assassinate: più del triplo rispetto al gennaio del 2023, un anno in cui il numero complessivo di morti era stato di oltre 5000. E più di 310.000 sono gli sfollati, a cui bisogna aggiungere le quasi 2.700 persone che, dal 5 all’11 febbraio, hanno dovuto abbandonare i municipi di Carrefour (a sud della capitale), Cité Soleil (a nord) e Tabarre (a nordest) per sfuggire agli attacchi delle bande armate.

È in questo quadro che migliaia di haitiani sono scesi in strada – con un bilancio di almeno altre sei vittime – esigendo le immediate dimissioni del primo ministro de facto Ariel Henry, il cui mandato, iniziato dopo l’omicidio di Jovenel Moïse nel 2021, avrebbe dovuto concludersi il 7 febbraio, ponendo fine a un periodo di transizione che si trascina ormai da oltre 30 mesi (ben al di là del limite di 120 giorni fissato dalla Costituzione).

Secondo l’accordo stipulato il 21 dicembre del 2022 con partiti di opposizione e rappresentanti della società civile – il «Consenso nazionale per una transizione inclusiva ed elezioni trasparenti» -, Henry avrebbe dovuto infatti indire lo scorso anno nuove elezioni (le ultime risalgono all’ormai lontanissimo 2016) e abbandonare l’incarico lo scorso 7 febbraio, una data simbolica legata alla fine della dittatura di François Duvalier nel 1986.

E invece, forte del sostegno della comunità internazionale e soprattutto degli Stati Uniti, Henry non solo è ancora al potere ma non ha neanche la minima intenzione di cederlo. Per celebrare elezioni libere e trasparenti, afferma, si devono prima ristabilire le condizioni di sicurezza: un’impresa difficilissima che il suo governo non è in alcun modo interessato ad affrontare.

E intanto, nel caos in cui sempre più sprofonda il paese, un nuovo elemento di destabilizzazione è dato dall’arrivo dell’ex leader golpista Guy Philippe, tornato ad Haiti dopo aver scontato una pena di sei anni negli Usa per riciclaggio di denaro. Già collaboratore della Cia e protagonista del golpe contro il presidente progressista Jean-Bertrand Aristide nel 2004, Philippe è ora deciso a dar vita a una «rivoluzione per il popolo e solo per il popolo», potendo già contare sul sostegno di centinaia di agenti della Brigata di vigilanza delle aree protette (Bsap), un’entità armata creata da Moïse su cui le autorità hanno perso completamente il controllo.

Henry, tuttavia, ha ancora una carta da giocare: l’imminente arrivo della forza di sicurezza multinazionale guidata dal Kenya il cui dispiegamento, sponsorizzato vivamente dagli Usa, è stato autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il 2 ottobre scorso. Scopo dell’intervento, quello di aiutare la polizia haitiana a combattere le bande criminali, che tuttavia, secondo il leader del Comitato democratico haitiano Henry Boisrolín, sono tali «solo in certi casi». Più corretto, a suo giudizio, sarebbe parlare di «signori della guerra», impegnati a «occupare spazi amministrativi» e decisi a «conquistare le maggiori quote di potere», così da affrontare eventuali negoziati da posizioni di forza.

Una missione, dunque, complessa, pericolosa e piena di insidie – l’ultima di una serie di occupazioni straniere dalle conseguenze invariabilmente nefaste per la popolazione haitiana – che il presidente William Ruto è deciso a portare avanti a tutti i costi, malgrado il Tribunale supremo del Kenya abbia bocciato lo scorso 26 gennaio la proposta di un dispiegamento di agenti di polizia sul territorio haitiano in quanto «incostituzionale, illegale e invalida».