Non c’è pace per i discendenti degli schiavi neri che diedero vita alla prima Repubblica libera del continente. Di quella gloriosa pagina iniziale ad Haiti resta ben poco: schiacciato sotto il peso di dittature e colpi di Stato (tristemente celebre quello del 1992 contro Aristide, ex sacerdote salesiano o all’epoca antioligarchico e anti-imperialista); sprofondato in un caos che la Missione di

Stabilità dell’Onu per Haiti, conclusasi nel 2017, è riuscita, se possibile, persino ad aggravare; distrutto dal devastante terremoto del 2010, il Paese è oggi non solo il più povero del subcontinente ma è anche in balia di una permanente instabilità politica e sociale.

L’ULTIMO atto è la disperata rivolta sociale del 6 e 7 luglio contro l’aumento del 50% del prezzo dei carburanti richiesto dal Fmi, che ha provocato la rinuncia del premier Jack Guy Lafontant. Una ribellione che rivela quanto siano fallimentari le politiche imposte dal Fmi, la cui richiesta di aumento del prezzo dei carburanti rientrava in un accordo sottoscritto a febbraio con il governo del presidente Jovenel Moïse, oggi aspramente contestato dalla popolazione.

MA NEPPURE la violenta rivolta – con almeno tre morti e decine di feriti – ha indotto il Fmi a fare marcia indietro: il portavoce dell’organismo Gerry Rice, dopo il ritiro del provvedimento da parte del governo, ha avuto il coraggio di sollecitare «un approccio più graduale per l’eliminazione dei sussidi a gas e cherosene». La storia dei danni inferti al Paese dal Fmi, del resto, non è certo nuova, considerando come già negli anni ’80 e ’90 l’organismo avesse obbligato Haiti a ridurre i dazi sul riso e su altri prodotti di importazione, distruggendo definitivamente la sovranità alimentare del Paese e aggravando la sua dipendenza dall’estero. Con la conseguenza che il riso – di cui Haiti è sempre stato un grande produttore – oggi deve comprarlo dagli Stati Uniti.( cl. fan.)