Internazionale

Haiti, dove nessuno è al sicuro

Una strada di Pétionville, a Port-au-Prince, disseminata di cadaveriUna strada di Pétionville, a Port-au-Prince, disseminata di cadaveri – foto Getty Images

Haiti Gang scatenate nel paese senza legge né pace: uccisioni, saccheggi, incendi ovunque. E c’è chi esulta se in risposta qualcuno viene linciato. Si torna a parlare di intervento militare straniero.

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 3 aprile 2024
Jean Robert Déry*PORT-AU-PRINCE

Secondo il rapporto delle Nazioni unite sulla situazione ad Haiti, nel primo trimestre di quest’anno oltre 1.500 persone sono state uccise e oltre 800 ferite dalle bande criminali che controllano più dell’80% dell’area metropolitana e sembrano avere maggiore presa rispetto a polizia ed esercito.

La notte del 2 marzo 2024, la coalizione delle gang “Viv Ansanm”, guidata da Jimmy Chérisier detto Barbecue, è penetrata nelle due prigioni più grandi del paese (il Pénitencier national e la Prison civile de la Croix-des Bouquets), liberando circa 5 mila detenuti, accusati di possesso illegale di armi da fuoco, rapimento, omicidio, stupro e furto.

NEL CENTRO DI PORT-AU-PRINCE la violenza è continua. Le bande dettano legge. Attaccano, saccheggiano e incendiano le stazioni di polizia, uccidendo agenti e talvolta civili. Ormai, nella capitale, solo i municipi di comuni di Pétion-Ville e Delmas, in particolare Haut Delmas, sembrano mantenere per gli abitanti una parvenza di normalità, pur nella paura.

Il 12 marzo, il primo ministro Ariel Henry, recatosi in missione in Kenya per firmare l’accordo tra il governo haitiano e quello keniano relativo al dispiegamento di un contingente militare ad Haiti, è stato costretto a dimettersi non potendo rientrare in patria a causa della chiusura degli aeroporti assaliti da bande armate, e sollecitato a lasciare dalla stessa comunità internazionale.

COSÌ COME LA SUA ENTRATA in carica era stata «ratificata» da un messaggio su X dei rappresentanti statunitensi ad Haiti, sempre da un messaggio su X siamo venuti a conoscenza delle sue dimissioni. Da allora, il paese è come una barca senza capitano né timone. Alcune settimane fa, con l’appoggio della Comunità dei Caraibi (Caricom), ha preso forma un consiglio presidenziale, che però non riesce a entrare in carica a causa delle lotte di potere tra i partiti politici, e del fatto che le bande paramilitari, escluse, promettono di continuare a saccheggiare e distruggere.

Un carretto funebre nelle strade della capitale di Haiti
Un carretto funebre nelle strade della capitale di Haiti, foto Ap

Il paese è alla deriva. Intere famiglie sono state costrette a lasciare le loro case, poi saccheggiate e bruciate. Nelle ultime due settimane di marzo, più di 33.000 persone hanno abbandonato l’area metropolitana. Nessuno è al sicuro. Persino la casa del direttore generale della polizia nazionale è stata data alle fiamme. La speranza di vita della cittadinanza è appesa a un filo. Ospedali, farmacie, università e scuole pubbliche e paritarie, tutto è stato chiuso, saccheggiato, incendiato. I genitori tengono i figli a casa. Alcuni istituti cercano di offrire corsi online, ma questo non risolve il problema: molte famiglie non hanno i mezzi per procurarsi privatamente l’energia elettrica, e quella cittadina arriva raramente o mai. Del resto, Internet è costoso e di scarsa qualità.

LE FAMIGLIE non hanno accesso al cibo, in un paese che da decenni è importatore alimentare netto. Secondo l’Unicef, più di 1,6 milioni di haitiani sono sull’orlo della carestia. In un rapporto pubblicato nel marzo 2023, Food Security Cluster sosteneva che circa 4,9 milioni di persone, quasi la metà della popolazione, si trovavano in uno stato di insicurezza alimentare acuta.

Dal 29 febbraio al 27 marzo, il paese è rimasto totalmente isolato dal resto del mondo: tutti gli aeroporti erano occupati dalle gang o chiusi per evitare le loro incursioni. Impraticabili le strade internazionali, controllate dagli armati, così come i porti più adatti a ricevere le navi, che sono a Port-au-Prince. A oggi, lo scalo internazionale Toussaint Louverture della capitale rimane chiuso. Gli esercizi commerciali le cui scorte non sono state rubate o distrutte, aumentano i prezzi dei beni di prima necessità. Non solo: la popolazione deve passare ore e persino giorni in banca per prelevare un po’ di denaro, perché le banche commerciali, vittime della violenza delle gang, hanno chiuso diverse filiali, rallentando le attività e limitando le transazioni con i clienti.

I QUARTIERI non ancora sotto il controllo delle gang sono barricati e i residenti danno la caccia agli sconosciuti ricorrendo al metodo del bwa kalé. Si arriva a bruciare vivi i sospettati di appartenere a bande delinquenti. Questa violenza estrema è il risultato anche della debolezza del sistema giudiziario che rilascia, per denaro o a causa dell’influenza politica, le persone accusate di connivenza. Il paese è talmente immerso in una spirale di violenza che la popolazione arriva ad approvare il linciaggio dei presunti membri delle gang.

La situazione attuale non ha precedenti nella sua storia. Ma è il risultato della violenza geopolitica, politica, endemica, strutturale e fenomenologica che ha percorso oltre 500 anni di storia, dalla colonizzazione a oggi – senza dimenticare, ovviamente, la lunga occupazione statunitense -; vi si aggiungono corruzione e impunità. Non tutto il paese vive oggi lo stesso livello di violenza, ma le conseguenze sono diffuse dovunque, perché tutto si concentra e dipende dalla «Repubblica di Port-au-Prince». La crisi attuale deve indurre a ripensare l’organizzazione politica, territoriale e patrimoniale del paese. È forse il momento di riflettere sulla necessità di decentrare i servizi pubblici e privati, perché la realtà ci mostra come la paralisi del dipartimento dell’Ovest porta a quella di tutto il paese.

OGGI SI PARLA DELL’INTERVENTO di una forza militare straniera ad Haiti. Questa soluzione, se può essere fattibile a breve termine, a lungo termine non lo è, perché sarebbe la terza volta in 30 anni che militari stranieri vengono inviati ad Haiti per mantenere l’ordine pubblico, e i risultati sono sempre stati molto deludenti. Questo è anche il momento in cui i paesi che si dicono amici di Haiti devono giocare la carta della trasparenza.

La situazione inedita suscita alcune domande pertinenti alle quali non sappiamo rispondere. Haiti non produce armi da fuoco ed è sottoposta a un embargo sul materiale bellico: da dove provengono allora le armi automatiche e munizioni di ogni calibro che sentiamo giorno e notte nelle strade di Port-au-Prince? Quali sono gli interessi nascosti dietro questa violenza? Chi ne trae vantaggio? Aspetteremo che scoppi una guerra civile vera e propria prima di trovare una soluzione alla crisi?

* sacerdote gesuita
traduzione di Marinella Correggia

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