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Haiti, ci risiamo: l’Onu dice sì all’intervento armato a guida Kenya

Haiti, ci risiamo: l’Onu dice sì all’intervento armato a guida KenyaIl segretario alla Difesa Usa Lloyd J. Austin e il suo omologo keniano Aden Duale, dopo la firma dell'accordo sul dispiegamento ad Haiti delle forze di Nairobi – Ap

Violenza su violenza Forze speciali multinazionali in arrivo per domare le gang e salvare il premier Henry, come vogliono gli Usa. Dubbi sui metodi dei poliziotti che invierà Nairobi. Partecipa anche l'Italia? No comment della Difesa. Contraria la società civile haitiana, memore dei disastrosi precedenti

Pubblicato circa un anno faEdizione del 4 ottobre 2023

Nel caso di Haiti la storia non è decisamente maestra di vita. Ignorando bellamente le nefaste conseguenze delle missioni internazionali realizzate dal 1994 in poi nel poverissimo paese caraibico, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha autorizzato – come chiedeva insistentemente il governo antidemocratico di Ariel Henry – il dispiegamento per un anno di una forza armata internazionale incaricata di aiutare la polizia haitiana a combattere le bande criminali.

Quelle bande che, create dalle élite in funzione dei propri interessi, hanno poi acquistato vita propria, giungendo a controllare fino all’80% di Port-au-Prince e seminando il terrore tra la popolazione: circa 3.000 gli omicidi commessi fra l’1 gennaio e il 9 settembre di quest’anno, quasi 1.500 i sequestri e 200.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie case per sfuggire alla violenza.

Nessuno, all’interno del Consiglio di sicurezza, ha votato contro: la risoluzione è passata con 13 voti a favore e due astensioni, quelle di Cina e Russia. Un risultato inatteso nel quadro dell’aspro conflitto geopolitico in atto da tempo tra i 15 membri del Consiglio.

A guidare la Multinational Security Support mission – che non è una missione Onu e sarà finanziata con contributi volontari – si è reso disponibile già dalla fine di luglio il Kenya, deciso a schierare entro gennaio mille agenti speciali delle proprie forze di polizia. Un ruolo, quello del paese africano – a cui faranno compagnia anche alcuni paesi afro-caraibici – utile a occultare il disegno imperialista soggiacente anche al nuovo intervento armato ad Haiti, di cui sono note le riserve di bauxite, rame, oro e argento. 

Perché se il Kenya ha accettato di fare il lavoro sporco – non si sa in cambio di cosa – in una missione che si annuncia quanto mai complessa e pericolosa, nessuno dubita che dietro ci siano gli Usa, autori della risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza e pronti a stanziare 100 milioni di dollari. 

Diversi, comunque, i paesi disposti a schierare forze militari nel paese. Oltre a Bahamas, Giamaica e Antigua e Barbuda, secondo il Miami Herald sarebbero della partita, con diverse forme di sostegno, Spagna, Mongolia, Senegal, Belize, Suriname, Guatemala, Perù e Italia (interpellato al riguardo, l’ufficio stampa del Ministero della Difesa non ha fornito alcuna risposta).

Un’eventuale presenza italiana non sorprenderebbe comunque più di tanto, avendo il nostro paese già preso parte alla Minustah, la Missione di stabilizzazione della pace delle Nazioni unite, nel 2008 e nel 2010 (dopo il rovinoso terremoto ad Haiti). Quella missione, iniziata nel 2004 dopo la destituzione del presidente Jean-Bertrand Aristide, sarebbe poi finita ingloriosamente nel 2017 senza realizzare alcuna stabilizzazione, e anzi lasciando dietro di sé casi di stupri e sfruttamento della prostituzione minorile, per non parlare dell’introduzione del colera, costata la vita a diecimila haitiani.

È forse per questo che la risoluzione approvata lunedì prevede l’adozione delle «misure necessarie per prevenire gli abusi sessuali», esigendo inoltre indagini tempestive su tutti i casi di cattiva condotta.

Non aiutano, però, i precedenti delle forze di sicurezza keniane, accusate di torture, stupri e altre gravi violazioni dei diritti umani, in particolare nell’area di confine con l’Etiopia e la Somalia, né la corruzione dilagante nel paese africano, al 128mo posto su 180 nell’indice di percezione della corruzione secondo Transparency International. Senza contare le prevedibili difficoltà di comunicazione tra i militari keniani, che parlano inglese e swahili, e gli haitiani, che parlano francese e creolo.

Ma in qualunque modo si comporteranno i partecipanti alla prossima missione, è chiaro che la nuova occupazione straniera non godrà dell’appoggio della società civile di Haiti, per la quale l’invio della forza militare servirà solo a legittimare il contestatissimo primo ministro Ariel Henry, il quale, succeduto a Jovenel Moïse dopo il suo assassinio – mai chiarito – nel 2021, ha provveduto a smantellare quello che restava delle istituzioni democratiche del paese, mantenendosi al potere solo grazie al sostegno statunitense. Evidenziando come le successive missioni internazionali non abbiano fatto altro che inasprire la crisi del paese, le organizzazioni popolari chiedono tutt’altro: un governo di transizione legittimo, di cui facciano parte anche rappresentanti della società civile, in vista di elezioni realmente libere e trasparenti.

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