«La madre è la figlia e la figlia è la madre», scriveva Jung, alludendo alla genealogia femminile, che segue il proprio corso in un succedersi di corpo in corpo, nutrendosi di antagonismo e di affetti, di invidia e di coinvolgimento, di competizione e di complicità: è alla luce di questa ambivalenza che andrebbe letto il romanzo di Gwendoline Riley, I miei fantasmi, appena uscito da Bompiani (traduzione di Tommaso Pincio, pp. 185, € 17,00) scarna e inquietante narrazione del rapporto tra una madre simulatrice e mitomane e una figlia anaffettiva.

Il titolo stesso del romanzo sembra autorizzare una lettura in chiave psicoanalitica: per Bridget, voce narrante, sono «fantasmi» non solo, e non tanto, gli spettri di un passato difficile – i genitori che ha conosciuto già separati: un padre prepotente e millantatore, «con l’attitudine del filibustiere», e una madre delusa e senza amici, che le figlie considerano «la disadattata delle favole» – ma anche gli scenari ricostruiti dalla memoria.

Non a caso, la maggior parte del racconto di Bridget riguarda il suo rapporto adulto con la madre, Hen, e i tentativi di estrometterla definitivamente dalla sua vita, trasferendosi da Liverpool, sua città natale, a Londra, e limitando i contatti agli auguri natalizi e a una cena annuale, in occasione del compleanno di lei, che termina regolarmente in un clamoroso disastro.

Tuttavia, dall’uno all’altro di questi incontri fallimentari, mentre Bridget, sempre più ostile, difende la propria autonomia, proviamo per la madre, con la sua irrimediabile solitudine, la sua inutile ricerca di un luogo che possa chiamare casa, e il suo terrore di essere «tagliata fuori», un’empatia che suscita più di un dubbio sull’affidabilità del punto di vista di Bridget. Con le sue cene rituali, i racconti di amicizie inventate e le reiterate infatuazioni per uomini sbagliati, Hen si ripropone – nei racconti della figlia – sempre uguale a sé stessa, presentandosi con quella fissità propria della dimensione sovratemporale che, secondo Lacan, appartiene al «fantasma».

Del resto, è proprio un analista, l’insipido fidanzato di Bridget, a riconoscere come la «chiusura assoluta» di Helen sia determinata dalla paura di interagire con gli altri, ciò che la fa vivere «in una realtà a priori», e comportarsi «come la persona che crede di essere. O la persona che ha deciso di essere».

Riflettendo sulla figura materna, Bridget arriva a concludere che le è mancata la possibilità di partecipare alla vita e alla storia, trovando finalmente «un posto che sentisse giusto, da dove guardare gli altri con meno paura», mentre metteva in moto «il suo vortice mondano. I suoi traslochi. Le sue vacanze… Ma tutte queste cose non erano mai ‘quel posto’. L’inclusione si trasformava in esclusione, tutte le volte».

A poco a poco, i «fantasmi» delle due donne vengono a sovrapporsi, e nelle immagini create dalla memoria della figlia si leggono in controluce i desideri irrealizzati della madre. Alcuni giorni trascorsi forzatamente con Hen immobile, reduce da un’operazione al ginocchio, funzionano per Bridget come una sorta di analisi incompiuta: nel corpo a corpo tra la madre e la figlia, la voce narrante si trova suo malgrado di fronte alla necessità di attraversare il proprio fantasma, accettando i limiti del suo destino, e sciogliendo il nodo che lega passato, presente e futuro.

Arrabbiata, oppressa dai sensi di colpa e, al tempo stesso incapace di mettersi in relazione con la madre senza ferirla, Bridget non riesce a ricostruire una sua visione del passato che coincida con quella materna, né a fornire a Hen una chiave per convivere con i propri fantasmi: «Credo che tu ti senta come se fosse stato infranto un patto quando dici che fai quello che ci si aspetta da te. Ma non è stato fatto nessun accordo, lo capisci, vero?».

Fino all’ultimo, l’intellettuale Bridget si rivolge alla madre come fanno i bambini che dialogano con un giocattolo, «dando per scontato che la metà di quanto le dicevo non le entrasse in testa o, se mai ci entrava, che non venisse capito e fosse rispedito al mittente senza tante cerimonie»; ma mostra, così, di non padroneggiare quella «lingua materna» che le sarebbe indispensabile per approdare a una fisionomia femminile autonoma, capace di ridisegnare la possibilità di una comunicazione con la madre.

Lo stile del romanzo, caratterizzato da paratassi, numerosi dialoghi asciutti e un lessico essenziale, privo di qualsivoglia abbellimento, riflette la ricerca irrisolta, carica di risentimento e recriminazioni, di quella «lingua materna»: dietro una apparente semplicità, il linguaggio di Riley traduce tutte le impercettibili sfumature di una situazione conflittuale alquanto comune, anche nella più felice delle genealogie femminili.

Tommaso Pincio, qui nelle vesti di traduttore, non solo è riuscito a calarsi in maniera convincente nella psiche delle protagoniste, evitando il rischio di appiattirne la lingua sulla banalità del parlato quotidiano, ma ha anche saputo rendere, soprattutto per quanto concerne la prima parte del romanzo, ambientata a Liverpool, la secchezza intrisa di ironia della parlata del Nord.

È anche grazie alla sua notevole traduzione che chi legge può cogliere l’unica verità cui approda Bridget, evocando, dopo la morte di Hen, una fatalità che il romanzo suggerisce appena: i genitori muoiono senza che i figli li abbiano realmente conosciuti.