Guillermo Arriaga, tradire le proprie origini per ritrovare la libertà
L'intervista Lo scrittore e regista messicano parla del suo nuovo romanzo, «Salvare il fuoco», pubblicato da Bompiani, che racconta una storia d’amore e redenzione in un Paese ferito dai narcos. «Marina vive in quartieri guardati a vista 24 ore al giorno da vigilanti privati e si sposta su auto blindate. L’incontro con José le rivelerà un Messico sconosciuto e qualcosa di sé»
L'intervista Lo scrittore e regista messicano parla del suo nuovo romanzo, «Salvare il fuoco», pubblicato da Bompiani, che racconta una storia d’amore e redenzione in un Paese ferito dai narcos. «Marina vive in quartieri guardati a vista 24 ore al giorno da vigilanti privati e si sposta su auto blindate. L’incontro con José le rivelerà un Messico sconosciuto e qualcosa di sé»
Alla fine delle oltre ottocento pagine del nuovo romanzo di Guillermo Arriaga, Salvare il fuoco (Bompiani, pp. 844, euro 24, traduzione di Bruno Arpaia) si è quasi certi che malgrado nel corso della storia abbia acquisito molti volti e nomi diversi, ciò che davvero siamo invitati a ritrovare quasi ad ogni costo dentro noi stessi come nel contesto nel quale ci muoviamo, sia la libertà.
In un Messico dominato dalla violenza del narcotraffico, dove la vita quotidiana è scandita da diseguaglianze sociali e, si direbbe, dall’esistenza di mondi che si costeggiano senza mai incontrarsi davvero, la politica immersa nella corruzione resta sullo sfondo come parte di questo scenario, Arriaga mette in scena un incontro che per il solo fatto di essere avvenuto rende possibile immaginare che tutto, un giorno, potrà però cambiare. Marina è una danzatrice e coreografa cresciuta in quella parte del Paese che, forte dei propri privilegi, guarda all’Europa come riferimento culturale. José Cuauhtémoc è un assassino brutale che il padre ha però cresciuto imponendogli, anche con la violenza, l’amore per i libri e che in prigione diventerà uno scrittore. Quando la compagnia di Marina porta uno spettacolo nel carcere in cui José è detenuto, tra i due scatta qualcosa che, per intensità e forza saprà travolgere ogni cosa e mettere in discussione quanto si credeva stabile e assodato fino ad un attimo prima.
Ma come accade spesso nelle opere di questo autore nato a Città del Messico nel 1958 – a cui si devono le sceneggiature di Amores perros, 21 grammi, Babel, Le tre sepolture, la regia di The Burning Plain, oltre a un pugno di romanzi che vanno da Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina a Il selvaggio passando per Il bufalo della notte -, i piani narrativi si moltiplicano intersecandosi senza tregua fino a costruire, anche attraverso una lingua visionaria e che raccoglie lo slang delle strade, un ritratto plurale della realtà e delle sue molte e irriducibili contraddizioni. Al punto che anche Salvare il fuoco, che ha vinto lo scorso anno il Premio Alfaguara, uno dei maggiori riconoscimenti internazionali alla narrativa di lingua spagnola, riesce a trasformare un ritratto sanguinoso della società messicana in un romanzo dove l’amore e la redenzione mostrano di poter vincere sull’orrore.
Marina e José, i personaggi principali del libro, sembrano quasi incarnare due polarità diverse e contrapposte della realtà sociale messicana. Che cosa, dopo averli fatti incontrare casualmente, finirà per legare l’uno all’altra in maniera indissolubile?
A spingerli l’uno nelle braccia dell’altra è la passione, la scoperta del corpo come luogo e possibilità dell’amore, come spazio dove accettare ciò che si è dentro, in profondità. In particolare Marina scopre un mondo che la sua esistenza borghese non le aveva mai concesso conoscere, del quale non immaginava neppure l’esistenza. E non a caso questa scoperta avviene proprio in carcere, la parte più estrema e terribile delle società in cui viviamo, la più lontana dalla realtà nella quale lei ha vissuto fino a quel momento.
Il carcere non è però solo il luogo in cui si incontrano i due protagonisti, bensì un elemento centrale del romanzo, dotato di un proprio piano narrativo anche attraverso le lettere dei detenuti che compiono nel testo. In questo caso emerge una dimensione reale, quella degli uomini reclusi e privati della libertà, ma anche un portato più vasto che non smette di interrogarci, di cosa si tratta?
Come dicevo il carcere è una sorta di «luogo estremo» delle nostre società, anche se non siamo affatto sicuri che rappresenti il modo migliore per punire qualcuno per ciò che di grave ha compiuto. Ci sono molte forme possibili di punizione: dal privare una persona dell’accesso ai servizi sociali, al non permettere che partecipi alla vita pubblica. Inoltre, non so come funzioni la giustizia in Italia, ma in Messico credo che il 60% dei detenuti siano stati condannati ingiustamente. Ed è perché ragiono da tempo su questi temi che ho scelto che il carcere fosse al centro della storia. Del resto, la genesi del romanzo si deve almeno in parte ad una lettera che mi ha scritto un detenuto brasiliano, nella quale spiegava: «Faccio il bibliotecario nella prigione in cui devo scontare una pena di cinquant’anni per omicidio e volevo dirti che malgrado i nostri corpi siano imprigionati, le nostre menti sono libere perché possiamo leggere. «Il bufalo della notte» (una storia notturna ai confini tra delinquenza e normalità che vede l’amicizia tra tre giovani sopravvivere perfino alla morte, ndr) è il tuo romanzo che preferiamo, ma ne abbiamo solo uno in biblioteca e ce la litighiamo continuamente. Ce ne puoi mandare un po’ di copie?». Gliene ho fatto mandare cinquanta. Però, tutto ciò mi ha fatto riflettere e molto sul fatto che l’arte, specie in un luogo come una prigione, può offrire delle occasioni di libertà a chi ne è privato. La letteratura può permettere alle persone di sentirsi libere anche nelle circostanze peggiori.
Un altro tema che attraversa il romanzo è quello della violenza di genere, accanto però alla possibilità che le donne si riapproprino dei loro corpi rivendicando autonomia e libertà di fronte ad ogni forma di oppressione. Come fa la compagnia di ballo di Marina che sceglie di portare proprio nel carcere dove è detenuto anche lo stupratore di una di loro uno spettacolo che mostra le artiste durante il ciclo mestruale.
Il libro muove dall’idea che nominare le cose significa in qualche modo partecipare anche al loro cambiamento. Così, tra le sue pagine ci si interroga su cosa possa rappresentare il corpo delle donne in una società dove il femminicidio è qualcosa di quotidiano. Quando Marina presenta questa coreografia come un’affermazione del corpo femminile proprio in un carcere, i detenuti finiscono per apprezzare sorprendentemente il suo lavoro. E nelle loro reazioni si leggono altrettanti fantasmi e rappresentazioni del corpo femminile che sono quelle alle quali assistiamo anche nel resto della società: corpi violentati, uccisi, decapitati, ma anche al contrario desiderati o portatori di erotismo e di intimità. Attraverso Marina e le sue colleghe la voce delle donne risuona però altrettanto forte.
Al centro di «Salvare il fuoco» torna anche un elemento già presente ne «Il selvaggio» e che riemerge spesso nelle sue opere, vale a dire la necessità di riappropriarci, di ritrovare la nostra parte animale, forse addirittura selvaggia, soffocata dalle convenzioni della società. In parte è anche questo che fa incontrare Marina e José.
Penso che la società mondiale si divida in due grandi blocchi. Da un lato, una parte più istintiva, addirittura feroce, quella a cui appartengono ad esempio i criminali, i narcos, che uccidono chiunque, comprese donne e bambini, e che appaiono come la componente «animale» di questo contesto. Dall’altra c’è quella più «civilizzata», politicamente corretta. E in Messico questa divisione è molto marcata. Personalmente penso però che mentre facciamo ogni sforzo per diventare più civili, per separarci da questa parte brutale dell’animalità che è in noi in quanto esseri umani, dobbiamo rimanere vigili, saper riconoscere quell’istinto se non vogliamo che prima o poi ci sfugga di mano.
L’incontro tra José e Marina, la scelta da parte di quest’ultima di abbandonare una dimensione borghese che in una realtà come quella dell’America Latina è spesso ancor più separata dal resto della società rispetto all’Europa, ci dice qualcosa del Messico di oggi, delle possibilità di cambiamento di una situazione che appare disperata?
Marina scopre improvvisamente le profonde contraddizioni in cui è immersa la società messicana e che la maggior parte delle persone del suo ceto ignorano del tutto: una borghesia talmente distante da ciò che potremmo chiamare «il Messico profondo» che non si accorge di quanto accade al resto della popolazione o al massimo la teme. La stessa Marina lo spiega: «Raccontiamo ai nostri figli la storia di Cappuccetto rosso, ma in realtà pensiamo che intorno a loro ci siano soprattutto lupi». Ha vissuto a lungo prigioniera di questa paura, al pari di molti suoi simili che abitano in quartieri guardati a vista 24 ore al giorno da vigilanti privati e si spostano su auto blindate e con guardie del corpo armate. L’incontro con José le rivelerà un Messico sconosciuto, ma le farà scoprire anche qualcosa di sé e di ciò che desidera. Trasgredendo alle regole nelle quali è cresciuta, tradendo in qualche modo la sua parte borghese, scoprirà se stessa e la realtà che la circonda.
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