Le guerre una volta iniziate non finiscono anche se i leader decidono che bisogna vivere in pace. La violenza subita e fatta resta dentro, si fa pratica, alimenta tensioni, discrimina, spezza relazioni individuali e comunitarie.

L’Etiopia è dentro questa dinamica pur avendo sancito lo scorso mese di marzo una tregua con la regione ribelle del Tigray le tensioni sono rimaste, sono profonde: la guerra oltre a tutti i danni umani e fisici ha slatentizzato tensioni storiche sulle terre di confine, in particolare tra la regione Amhara e il Tigray. Sono terre che in passato erano parte dell’Amhara, ma ancora prima erano Tigray. Secondo i ricercatori dell’Università del Ghent erano Tigray a metà del 19° secolo «l’altopiano eritreo Baharnagasch e l’attuale Tigray occidentale con «Walkayt e Waldubba». Prima ancora era Amhara poi «all’inizio degli anni ’90 – spiega Kenneth Roth direttore esecutivo di Human Rights Watch (Hrw) – il precedente governo etiope guidato dal Tigray People’s Liberation Front (Tplf), incorporò la zona nel nuovo stato regionale del Tigray, ponendo le basi per controversie decennali su confini, autogoverno e identità».

Sono fatti lontani su cui però è incappata la diplomazia italiana. Nel recente viaggio in Etiopia il ministro degli Esteri Di Maio ha sottoscritto una serie di accordi che prevedono un prestito da parte dell’Italia di 22 milioni di dollari per lo sviluppo di diversi parchi agroindustriali integrati e dei centri di trasformazione rurale, per creare posti di lavoro nelle aree interne del Paese e aumentare i redditi degli agricoltori, generare entrate da esportazione, sostituire le importazioni di beni agro-trasformati e contribuire alla crescita economica e alla trasformazione strutturale nella zona del Tigray occidentale precisamente a Bulbula, Bure, Yirgalem e Ba’eker.

Tuttavia, come denunciato da Amnesty International e Human Rights Watch in alcune di queste zone sono in corso processi di pulizia etnica messi in atto da funzionari regionali Amhara, forze speciali e milizie regionali, con la complicità delle forze federali, tesi ad espellere la popolazione tigrina. «Gli amministratori locali hanno discusso apertamente di piani di espulsione durante le riunioni pubbliche cittadine. Sono stati distribuiti opuscoli che davano ai tigrini l’ultimatum di 24 o 72 ore per andarsene o essere uccisi. Le autorità ad interim e i funzionari delle forze di sicurezza hanno ripetuto slogan come «i tigrini devono andare ad est del fiume Tekeze», «questa è terra Amhara».

Le organizzazioni per i diritti umani descrivono l’espulsione dei tigrini come sistematica: le persone sono state costrette a partire per il Sudan o altre parti del Tigray, a un commerciante di 23 anni è stato detto chiaramente «ti cancelleremo dalla faccia di questa terra, questa terra è nostra,  è l’ultima volta che un tigrino vivrà nella zona». Anche il Segretario di Stato americano Antony Blinken aveva parlato di  «atti di pulizia etnica nel Tigray occidentale». Le autorità federali e regionali etiopi hanno sempre respinto le accuse, ma hanno nel contempo avviato indagini. Amnesty e Hrw affermano che le prove raccolte dimostrano che il Tigray occidentale è stato il luogo di alcune delle peggiori atrocità commesse durante la guerra ed è stato ampiamente ignorato. Per questo spiegano «riteniamo che questo ritorno all’attività in un momento in cui gli abusi continuano e la scelta di questo progetto richieda un esame accurato».

Ora il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha affermato che il suo governo ha formato un comitato apposito per negoziare con le forze del Tigray. Da parte sua il governo del Tigray in una nota ha chiarito che «qualsiasi risoluzione duratura dell’attuale crisi deve essere basata sul ristabilimento dello status quo ante prebellico».

La guerra non regola nessuna nuova né vecchia disputa aggiunge solo problemi e speriamo che il prestito italiano non sia tra questi. Noi italiani in Etiopia dovremmo sapere che chi è stato morso da un serpente, deve temere pure la lucertola. Oppure che un visitatore prudente e accorto apre gli occhi, ma non la bocca.