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Guerra del Sudan, torna la pulizia etnica nel Darfur alla fame

Guerra del Sudan, torna la pulizia etnica nel Darfur alla fameProfughi sudanesi su una barca a Renk, sul Nilo Bianco, diretti in Sud Sudan – foto Eva-Maria Krafczyk/Ap

Africa Infuria il conflitto tra esercito e paramilitari. Oltre 1300 morti in dieci giorni nell’assedio di el-Fasher. Ed è caccia ai non-arabi

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 giugno 2024

La guerra in Sudan ha ormai assunto una dimensione etnica specie nel Darfur, dove la battaglia tra i militari dell’esercito sudanese (Fas), guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (Rsf) del generale Hamdane Dagalo (detto Hemedti) sta causando migliaia di vittime nella città di el-Fasher (Nord Darfur).

l lancio di granate su case, mercati e ospedali, dicono che non esiste un posto sicuro per i civili Claire Nicolet (Msf Sudan)

CON OLTRE 2 MILIONI DI ABITANTI – di cui 800mila profughi – el-Fasher è l’unica capitale dei cinque stati del Darfur a non essere nelle mani dei paramilitari di Hemedti e in questi mesi è diventata il principale centro di rifugio dei profughi e di raccolta degli aiuti umanitari, in un’area duramente colpita dalla carestia. In un comunicato ufficiale, Medici Senza Frontiere (Msf) ha annunciato questo mercoledì che sono almeno «1300 le vittime in dieci giorni di bombardamenti», anche se il numero effettivo è sicuramente superiore «con i civili che stanno seppellendo i morti per strada» e con il rischio di chiusura per l’unico ospedale della città ancora funzionante a causa della «mancanza di medicinali e per l’impossibilità di curare i feriti».

«Gli intensi combattimenti a el-Fasher, con il lancio di granate su case, mercati e ospedali, dicono che non esiste un posto sicuro per i civili. Le vittime di massa si verificano quasi ogni giorno» ha detto Claire Nicolet, responsabile per il Sudan di Msf, precisando che anche l’ospedale della Ong è stato bombardato tre volte questa settimana, con altre vittime tra i feriti e precarie condizioni di sicurezza per il personale medico ancora presente.

NEGLI ULTIMI MESI LE RSF hanno rafforzato le proprie forze nel tentativo di prendere il controllo di tutto il Darfur e hanno lanciato un assedio alla città, radendo al suolo i villaggi della zona e uccidendo tutti i civili di etnia non araba, in particolare i Massalit e gli Zaghawa. Un’ulteriore conferma dell’ultimo report pubblicato lo scorso mese da Human Rights Watch (Hrw) che ha sollevato la possibilità di un «genocidio in atto», citando «la pulizia etnica e crimini contro l’umanità» commessi dalle Rsf contro le comunità non arabe. Proprio per questo alcuni dei gruppi armati locali presenti nell’area si sono uniti per respingere gli assalti degli uomini di Hemedti: il Sudan Liberation Movement (Slm) guidato dal governatore locale Minni Minnawi e il Justice and Equality Movement (Jem) di Gibril Ibrahim, che hanno rinunciato alla loro neutralità, per combattere a fianco dell’esercito.

ALTRETTANTO CATASTROFICA sembra la situazione nei vicini campi profughi – in particolare quello di Abou Chouk, situato a nord della città con oltre 350mila profughi – che nei giorni scorsi sono stati bersagliati dai bombardamenti da parte dei miliziani delle Rsf e con oltre il 90% dei profughi ormai ridotti alla fame.

A causa dei feroci combattimenti, la situazione alimentare in tutto il paese e nel Darfur è «catastrofica», ha affermato su Radio France International (Rfi) Mathilde Vu portavoce del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc): «Siamo in una situazione di carestia, con persone costrette a mangiare foglie, terra e insetti per sopravvivere». Solo il 5% degli aiuti è riuscito a raggiungere el-Fasher.
Questo martedì, Martin Griffiths, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), in una conferenza dedicata al Sudan, ha precisato che la guerra civile è diventata «una tragedia umanitaria causata da una guerra di ego, tra due uomini pronti a sacrificare il proprio paese».

DA OLTRE UN ANNO violenti combattimenti vedono contrapposti Al-Burhan a Dagalo senza che alcuna mediazione sia riuscita a fermare un conflitto che ha provocato ad oggi almeno 25mila vittime e oltre 9 milioni di sfollati interni o rifugiati nei paesi vicini come Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Etiopia e Sud Sudan.

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