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Guerra alle Ong, le «prove» di Salvini

Guerra alle Ong, le «prove» di SalviniMatteo Salvini – LaPresse

Mediterraneo Per il ministro dell’Interno: «Ci sono evidenze di contatti telefonici tra persone a bordo e scafisti». Ma in nessuna inchiesta delle Procure di mezza Sicilia sono emersi rapporti tra le organizzazioni non governative e i trafficanti di esseri umani

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 24 gennaio 2019

Salvini lancia il sasso: «Alcune persone a bordo delle navi delle Ong» hanno avuto «contatti» con «alcuni trafficanti a terra». Il ministro parla di «evidenze», lasciando intendere che non si tratta di elementi già emersi in precedenti indagini. E avverte: «Gireremo le informazioni all’autorità giudiziaria» perché «sono temi che riguarderanno l’autorità giudiziaria, non il ministro dell’Interno». Ma quali Ong? Cosa significa «alcune persone»? Quante? Sono volontari, operatori, armatori? Nulla. E cosa intende il ministro per «evidenze»? Forse ha avuto informazioni dai servizi? Se così fosse, come fa a sostenere che le girerà ai magistrati? Oppure ha ricevuto informative riservate da parte di esponenti delle forze dell’ordine senza che un magistrato ne sia a conoscenza? Mistero. Il capo del Viminale lancia il sasso, ma ritira la mano. Una boutade? Si vedrà. Oscar Camps, fondatore della Ong catalana Proactiva Open Arms, twitta: «Salvini ha anche le prove riguardanti i contatti tra la mafia, le imprese italiane e i trafficanti di petrolio libici? Visto che gli statunitensi sembra le abbiano…».

Di certo, in questa storia, ci sono altre evidenze: quelle delle Procure di mezza Sicilia che hanno indagato sulle Ong. In nessuna delle inchieste sono emersi rapporti tra le organizzazioni non governative e i trafficanti di esseri umani. Eppure i pm – da Palermo a Ragusa da Trapani a Catania – hanno rivoltato come calzini le Ong spendendo migliaia e migliaia di euro per intercettazioni e investigazioni; in alcuni casi le inchieste sono state già archiviate, in altri sono aperte ma le indagini hanno virato su reati specifici, alcuni sorprendenti, come la violenza privata. A Palermo i magistrati non solo non hanno trovato prove a sostegno della tesi ma, archiviando due indagini, hanno sostenuto che l’attività delle Ong risulta in linea con le leggi italiane, nonostante i dubbi sollevati da più parti, soprattutto politiche. Furono una dozzina le Ong passate al setaccio dai pm, partendo da una operazione di soccorso del 15 maggio del 2017 al largo della Libia.

Aperta all’inizio contro ignoti l’indagine coinvolse dodici organizzazioni, accusate di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. In base ad alcune testimonianze raccolte dai pm, un gruppo di «europei» avrebbe tagliato i cavi di avviamento del motore di alcuni barconi con a bordo i migranti, consentendo ad alcuni trafficanti di recuperare i motori da usare per futuri sbarchi. In quel gruppo qualcuno indicò il personale della Iuventa, una nave di Jugend Rettet, ong tedesca già al centro di un’inchiesta della procura di Trapani. Le procedure di soccorso erano poi state completate dalla Ong spagnola Proactiva Open Arms, che qualche mese dopo sarà sequestrata (e poi dissequestrata) dalla Procura di Catania nell’ambito di un’altra inchiesta. Nelle carte con cui i pm di Palermo chiesero e ottennero l’archiviazione si legge «alla luce delle indagini svolte, non si ravvisano elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle ong e i trafficanti operanti sul territorio libico». Non solo: i magistrati hanno difeso l’attività delle Ong, citando le leggi che obbligano l’equipaggio di una nave a soccorrere persone che si trovano in difficoltà in mare, e i singoli stati ad accogliere chi fra loro intende fare richiesta di una protezione internazionale, citando la convenzione di Amburgo e legittimando la scelta di un’altra Ong tedesca, la Sea Watch, che aveva preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane invece che a Malta.

Emblematico il provvedimento del Tribunale del Riesame di Ragusa secondo cui la «disobbedienza» delle Ong che scelgono di non cooperare con le autorità libiche è motivata dallo «stato di necessità» correlato al soccorso dei naufraghi. Un’ordinanza contro cui la Procura non ha avanzato ricorso in Cassazione, diventando giurisprudenza a cui possono appigliarsi tutti gli operatori che agiscono nel Canale di Sicilia. Sempre a Ragusa era stata inizialmente sequestrata, su disposizione dei pm di Catania, poi spogliata dalla competenza territoriale restituita ai magistrati ragusani, la nave di Proactiva Open Arms: il gip poi dispose la riconsegna all’equipaggio dell’organizzazione iberica. Anche a Trapani l’inchiesta, che ha coinvolto pure il sacerdote eritreo don Mosé Zerai con la sua agenzia umanitaria Habeshia, si è sgonfiata, nonostante siano stati usati infiltrati a bordo delle navi delle Ong: coinvolte Juventa, Dignity one, Bourbon Argos e Vos Prudence. Pure a Catania l’inchiesta del capo della Procura, Carmelo Zuccaro, alla fine ha preso una direzione diversa rispetto a quella iniziale: dai presunti rapporti tra Ong e trafficati di esseri umani al traffico di rifiuti pericolosi.

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