Guaidó: basta Maduro. Ma è una simulazione
Venezuela Partita «la prima prova dell’Operazione libertà». Le opposizioni, stanche dell’autoproclamato presidente, sperano nel suo arresto. E ci sperano anche gli Usa che avrebbero l'opportunità di intervenire
Venezuela Partita «la prima prova dell’Operazione libertà». Le opposizioni, stanche dell’autoproclamato presidente, sperano nel suo arresto. E ci sperano anche gli Usa che avrebbero l'opportunità di intervenire
L’Operazione libertà, come Juan Guaidó ha battezzato la sua nuova offensiva contro il governo Maduro, ha preso avvio sabato tra aspettative decisamente più basse rispetto a quelle che avevano accompagnato il 23 febbraio la superpubblicizzata Operazione Cúcuta, quella dell’ingresso degli aiuti umanitari «sì o sì».
Evitando di annunciare l’immediata «fine dell’usurpazione», stavolta l’autoproclamato presidente ad interim si è limitato a lanciare «una prima simulazione della Operación Libertad», non senza suscitare il sarcasmo di diversi membri dell’opposizione, sconcertati dal paradossale invito alla simulazione di un assalto al potere.
Se non esistono dati sull’effettiva partecipazione alle proteste, annunciate in 358 punti del paese, è certo che a Caracas i sostenitori di Maduro, scesi in strada per il quinto sabato successivo, sono sembrati assai più numerosi degli oppositori.
Guaidó, tuttavia, non si ferma, convocando per mercoledì nuove proteste nel quadro dell’Operazione libertà, da lui descritta come «la massima pressione popolare mai registrata in Venezuela», sotto la guida di Comités de Libertad y Ayuda incaricati a loro volta di creare «cellule di libertà» in tutto il paese. E ha anche annunciato «un grande incontro mondiale di leader per parlare della situazione in Venezuela», pur senza fornire ulteriori dettagli.
È evidente, in ogni caso, che il potere di convocazione di Guaidó non sembra tale da impensierire seriamente il governo. Tant’è che molti, tra le fila dell’opposizione, ritengono che l’autoproclamato presidente sarebbe molto più utile in prigione che in libertà, auspicando che la revoca della sua immunità parlamentare, decisa dall’Assemblea nazionale costituente su richiesta del Tribunale di giustizia, preluda davvero a un suo imminente arresto.
«Abbiamo in serbo misure che farebbero molto male al regime», ha assicurato l’inviato Usa per il Venezuela Elliot Abrams in merito all’eventuale – e per gli Stati uniti sicuramente vantaggiosa – detenzione del leader dell’estrema destra. È arrivata, invece, per Guaidó prima l’interdizione dalle cariche pubbliche per 15 anni, con l’accusa di non aver dichiarato al fisco 570 milioni di bolívares (più di 150mila dollari) in spese di viaggio e alloggio; e poi, con la revoca dell’immunità, l’autorizzazione a perseguirlo penalmente per usurpazione delle funzioni presidenziali e per il suo presunto coinvolgimento in quello che il governo definisce un sabotaggio al servizio elettrico, le cui conseguenze non sono state ancora del tutto superate.
Che quella in corso sia una guerra non convenzionale diretta contro i servizi pubblici ne è più che convinto il governo Maduro, che ha denunciato la combinazione di forme di «terrorismo cibernetico» con «l’introduzione di virus nei sistemi computerizzati» del servizio elettrico nazionale e con aggressioni di carattere «elettromagnetico dirette contro le linee di trasmissione». Con l’obiettivo, tra l’altro, di lasciare il popolo senz’acqua «per condurlo alla disperazione totale».
E ad alimentare ulteriori sospetti sull’origine dolosa dei black-out ci ha pensato la notizia della firma da parte di Trump di un ordine esecutivo diretto a proteggere la tecnologia e l’infrastruttura degli Stati uniti da eventuali attacchi elettromagnetici – guarda caso quelli che gli Usa sono stati accusati di portare avanti in Venezuela –, incorporando tali armi «come un fattore nella pianificazione di scenari di difesa».
Un ordine esecutivo che, come ha evidenziato il viceministro di Comunicazione William Castillo, «permette di realizzare attacchi ad altri paesi mediante impulsi elettromagnetici per ragioni di “difesa”».
In ogni caso, dopo la minaccia di Trump di «sanzioni più dure», gli Usa sembrano ben determinati a incrementare le pressioni su Maduro impedendo, come ha denunciato il governo venezuelano, «l’esecuzione dei piani sociali e produttivi da parte degli operatori pubblici e privati del paese». Così, facendo seguito alle sanzioni dirette alla Pdvsa, alla compagnia mineraria venezuelana Minerven, alla Bandes (la Banca statale di sviluppo economico e sociale) e alle sue controllate, il governo Usa ha disposto anche l’embargo a decine di navi venezuelane, a cominciare da due compagnie incaricate di trasportare combustibile a Cuba.
«Mentre i paesi normali esportano beni – ha spiegato il vicepresidente Usa Mike Pence – Cuba esporta la tirannia. È arrivato il momento di liberare il Venezuela da Cuba». E subito Guaidó si è affrettato su Twitter a rilanciare il verbo dell’amministrazione Trump: «In coordinamento con i nostri alleati stiamo già eseguendo misure per impedire che il petrolio dei venezuelani continui a essere deviato verso l’isola caraibica».
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