«L’infanzia non finisce tutta in una volta come avremmo voluto da bambini. Rimane lì, rintanata e silenziosa nei nostri corpi maturi, poi appassiti, finché un bel giorno, dopo molti anni, quando crediamo che il carico di amarezza e di disperazione che portiamo sulle spalle ci abbia irrimendiabilmente trasformato in adulti, ricompare con la rapidità e la potenza di un lampo»: così la scrittrice messicana Guadalupe Nettel nell’incipit del suo più recente libro di racconti, La vita altrove, appena pubblicato nella traduzione di Federica Niola (La Nuova Frontiera, pp. 192, €16,90). Sono parole che arrivano con la limpidezza e la perentorietà di una dichiarazione di poetica: dopo tre romanzi e due raccolti di racconti, Nettel scopre le sue carte, e dice ciò che non aveva mai esplicitato ma che si trovava seminato in ogni sua pagina: l’infanzia è il nodo.

Sono molte le strategie letterarie per maneggiare l’infanzia. I bambini veri e propri, per esempio, compaiono da protagonisti – tra gli otto testi di questa raccolta – soltanto in  «La confraternita degli orfani», che mette al centro l’infanzia negata, o forse, meglio, la genitorialità sottratta,  come un modo specifico di stare al mondo: un modo menomato e al contempo atomico, forte e fragilissimo. In  «Albatri vaganti», il testo che nell’originale uscito da Anagrama («Los divagantes») dà il titolo al libro, è il sentimento dell’infanzia, più ancora della fattualità dell’essere bambini, a prendersi  la scena. La parte della vita che spendiamo nell’infanzia è ciò che ci rende – con le parole di Nettel – «albatri» o inetti, adatti o meno a una esistenza funzionale.

Di Nettel conosciamo il lavoro da alcuni anni, grazie soprattutto alle edizioni della Nuova Frontiera, determinante nel posizionarla tra le voci più libere e significative della letteratura sudamericana contemporanea, insieme a Samantha Schweblin, Valeria Luiselli, Alejandro Zambra, tra gli altri. La misura del suo scrivere resta quella del racconto, che solo a volte esonda fino a prendere il passo e il respiro  della novella, come nella Figlia unica, il suo libro più recente o, per certi versi, in  Il corpo in cui sono nata. Alcuni nuclei tematici tornano di libro in libro: il protagonismo degli animali, per esempio, nel Bestiario sentimentale, accanto alla fisiologia del corpo e ai labirinti misteriosi in cui si sviluppa la vita umana; ma un ruolo importante è anche riservato alle piante e più in generale all’universo vegetale, per esempio  in Petali e in questo suo ultimo La vita altrove.

Cosa interessa a Guadalupe Nettel degli anni che vanno dall’infanzia al tempo febbrile dell’adolescenza? Forse il fatto che sono ancora mobili, che precedono la fissità forzata dell’età adulta. I suoi orfani e i suoi albatri divaganti ricordano i bambini e i ragazzi non integrati della periferia francese che ha descritto nel suo memoir, Il corpo in cui sono nata.

Dovunque, esseri sensibili che soffrono la vita oltremisura, e non a caso ne restano ai margini: sono i cosidetti strani, i non conformi, gli albatri baudeleriani, il cui sentire esasperato li rende paradossalmente non adatti alla vita associata, alle norme sociali. Il loro destino, sia nella «Confraternita degli orfani» sia in «La vita altrove», consiste nel cercarsi e nel riconoscersi a vicenda – la voce narrante vedrà apparire e sparire Camilo come una barca tra i flutti nel mare degli anni – sempre alla ricerca di un altrove, ovvero di un inesistente paradiso, o comunque di un approdo che accolga chi è senza appartenenza.

Ciò che interessa Nettel dell’infanzia non riguarda la supposta innocenza di questa età della vita, né il gioco. È  piuttosto la radicalità, spesso feroce, a volte spietata, della tensione verso la sopravvivenza. È la metamorfosi, che sulle sue pagine prende la forma di una prosa naturale, ovvero conforme alla natura, un organismo di parole in cui si alternano realismo e visionarietà.

L’araucaria malata del racconto «Un bosco sottoterra», il bonsai del giardino botanico di Petali, i pesci rossi o l’invasione di scarafaggi di Bestiario sentimentale, la nascita di Inés nella Figlia unica, gli albatri dispersi lungo il globo, non sono che espressioni della vita organica: l’infanzia è tra queste, e via via si chiarisce come Nettel la concepisce, una sorta di utopia distorta contenuta nella metamorfosi continua della vita. Sembra una sorta di condanna al mutamento, al non trovare casa se non altrove rispetto al dove si è: in un corpo nuovo, anch’esso destinato a una forma provvisoria, all’essere quel che è solo per un po’. Questo, di fatto, sembra dire Nettel, ci insegnano i bambini.