Gruppo Ippolita: come resistere alle Big Tech che si fanno Stato
Fratello Grande Intervista al Gruppo Ippolita, il collettivo indipendente di attivisti libertari che studiano e scrivono sulla tecnopolitica e sulla filosofia della tecnologia: «Trump-Musk: quando le Corporation fanno proprie le parole d’ordine più reazionarie, bisogna hackerare il loro gioco. Bisogna confrontarsi con la cultura queer, il transfemminismo, l’antispecismo e la blackness. Connettere l'immaginario e le lotte che possiamo portare avanti»
Fratello Grande Intervista al Gruppo Ippolita, il collettivo indipendente di attivisti libertari che studiano e scrivono sulla tecnopolitica e sulla filosofia della tecnologia: «Trump-Musk: quando le Corporation fanno proprie le parole d’ordine più reazionarie, bisogna hackerare il loro gioco. Bisogna confrontarsi con la cultura queer, il transfemminismo, l’antispecismo e la blackness. Connettere l'immaginario e le lotte che possiamo portare avanti»
Il gruppo di ricerca Ippolita è un collettivo indipendente che si occupa di tecnopolitica e di filosofia della tecnologia. Associa l’attivismo politico libertario alla riflessione sui saperi tecnici e teorici. Il suo progetto è l’«hacking del sé», cioè cosa fare per sottrarsi al controllo del capitalismo della rete. Un’esigenza più viva che mai dopo che Trump è tornato al potere e si è alleato con Elon Musk.
Avete sostenuto che l’anarcocapitalismo ha conteso all’«etica hacker» l’egemonia sulla rete. Ora che Musk è stato nominato da Trump ministro all’anarco-capitalismo si può dire che questa idea politica abbia vinto?
Sembrerebbe di sì. Con Musk Trump vuole andare verso la costruzione di uno Stato minimo realizzato. Sempre che non litighino e si dividano dopo.
Cos’è lo «Stato minimo»?
Tagliare due triliardi di dollari su sei di spesa sociale che non è destinata solo alla «burocrazia» come dice Trump, ma a quella pallida idea di Welfare che c’è negli Stati Uniti, i servizi ai cittadini. Nello Stato minimo sussiste uno stato di diritto, ma i diritti umani sono pensati a partire dalla tutela esclusiva della proprietà privata. E viene mantenuto il controllo dell’esercito e della polizia. Nella stessa direzione va Milei in Argentina.
Sembra che Musk sia una specie di ideologo che ha la licenza di parlare di tutto: attaccare la magistratura italiana per esempio…
Sta spostando l’opinione pubblica italiana per legittimare l’iniziativa del potere più reazionario sulla deportazione dei migranti in Albania. Del resto Trump vuole fare la stessa cosa negli Stati Uniti: deportare milioni di persone.
Qual è la differenza tra Musk e le aziende classiche della Silicon Valley: Facebook, ad esempio?
Musk non viene dall’«ideologia californiana». Sia pure annacquati, in essa permangono alcuni ideali che si rifanno ai movimenti studenteschi degli anni Sessanta che si svilupparono in California. La Silicon Valley, in realtà, ha ribaltato i valori di quei movimenti e li ha spacciati come propri. Musk non intende farsi passare per un democratico. A lui non interessa fare il giochino di Google o Apple. La sua è una cultura autoritaria. Ama passare per un cane sciolto. In realtà è uno degli imprenditori più sussidiati dallo Stato.
I suoi affari ne gioveranno?
Certo, già ora si stanno rivalutando. L’aiuto dello Stato è fondamentale per questo capitalismo.
Avete da poco curato e tradotto «Come distruggere il capitalismo di sorveglianza» di Cory Doctorow per Mimesis. La tesi del libro è che bisogna spezzare i monopoli della rete per fermare questo tipo di capitalismo. Si può dire che oggi i monopoli abbiano occupato il governo e si fanno leggi?
Sì. Il Trump 2 assomiglia alla realizzazione dei peggiori incubi di tanti attivisti e non solo per i diritti digitali. Le Big Tech si fanno Stato. Le Corporation fanno proprie le parole d’ordine più reazionarie.
Il dibattito sulla fine dei monopoli risale a prima del mandato di Biden. Perché non è stato fatto nulla nel frattempo?
Per una questione di rapporti di forza tra la sua amministrazione e le Big Tech. Doctorow ci ha posti davanti a un bivio: o si smantellano i monopoli digitali con le leggi antitrust, oppure lo Stato si rivolgerà alle Big Tech e gli affiderà il ruolo di normare la rete. Ed è quello che è successo sulle violazioni della privacy, sulla pirateria o sul bullismo. Ai fornitori dei servizi è chiesto di farsi guardiani dei propri utenti. È una brutta scorciatoia. I Democratici Usa non hanno messo in discussione il potere dei monopoli. Non solo hanno perso, ma li hanno rafforzati.
Cosa fare? Lasciare Twitter, creare nuove piattaforme?
Abbandonare gli strumenti falsamente gratuiti è salutare, creare nuovi ambienti anche. A patto che si creino altre piattaforme che lavorino sovvertendo le norme del capitalismo e del consumismo. Bisogna rifiutare la gamificazione, il quantified self e il self branding che uccidono la cultura del conflitto e la possibilità di uno scambio, creare cooperazione e una comunicazione tra pari.
Nel vostro ultimo libro, pubblicato per Agenzia X, parlate di fare «Hacking del sé». Cosa significa? È un esercizio spirituale?
No, assolutamente. È un processo di presa di coscienza di tipo etico e politico, individuale e collettivo. Significa dirottare il gioco della competizione e mettere al centro la relazione tra noi e gli altri, anche attraverso la tecnologia digitale e il confronto con i saperi che ci vengono dalla cultura queer, dal transfemminismo, dall’antispecismo e dalla blackness.
Nel libro fate riferimento al transfemminismo. Quali pratiche vi ispirano i suoi movimenti?
La pratica del partire da sé, dai nostri corpi. Le tecnologie della sorveglianza creano forme sistemiche di violenza che vengono naturalizzate. È molto difficile riconoscere che uno strumento apparentemente innocuo come per esempio la geolocalizzazione è il principale strumento che ci insegna che essere controllate è cosa utile, dunque buona e giusta. Se un uomo ti controlla o se ti controlla una multinazionale in entrambi i casi è violenza e come tale va riconosciuta.
A chi oggi pensa che il potere ci ha fottuto cosa rispondete?
Parafrasando il filosofo Cornelius Castoriadis: per cambiare le cose c’è bisogno di dare spazio a un’immaginazione produttiva, cioè a un immaginario radicale, al fine di creare società altre all’altezza dei nostri desideri. C’è una forte connessione tra l’immaginario che agiamo e le lotte che possiamo portare avanti.
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