Green Deal, il rischio della marcia indietro dell’Unione europea
Europa Da Draghi a Meloni, l'Italia ha continuato a puntare sul gas. In Germania la difficoltà di conciliare ecologia e rigore ha messo in ombra i Verdi
Europa Da Draghi a Meloni, l'Italia ha continuato a puntare sul gas. In Germania la difficoltà di conciliare ecologia e rigore ha messo in ombra i Verdi
A quattro giorni dal voto dell’Europarlamento che accorderà o meno la fiducia a Ursula von der Leyen per un secondo mandato da presidente della Commissione, non è ancora chiaro quale maggioranza la sosterrà. A popolari, socialisti e liberali serve una quarta forza per neutralizzare i franchi tiratori, e non si sa se la presidente uscente conti sulla destra di Ecr o sui Verdi. Un bivio che, una volta preso, ci darà una prima indicazione anche sul futuro delle politiche climatiche europee.
«Sarà il nostro uomo sulla Luna» diceva nel 2019 Ursula von der Leyen annunciando l’European Green Deal, il piano di transizione ecologica dell’Unione. A Bruxelles sembrava il momento giusto per diventare l’avanguardia mondiale della lotta al riscaldamento globale: le piazze del continente pullulavano delle proteste dei movimenti per la giustizia climatica, mentre i Verdi avevano ottenuto il miglior risultato della loro storia sia al Parlamento europeo sia in stati chiave come Francia e Germania. Con Trump alla Casa Bianca, d’altronde, sembrava che nessun altro potesse reclamare il ruolo di aprifila.
Certo, l’idea di transizione di von der Leyen era quella di una maggioranza moderata dentro un’Ue legata da vincoli di bilancio e sensibile alle lobby. Del Green New Deal lanciato dalla sinistra statunitense l’Europa ha preso il nome, ma non l’accento su intervento pubblico, sindacati, tasse alle grandi aziende. L’autorevole centro studi Carbon Action Tracker ha chiarito come le leggi europee siano insufficienti a rispettare gli obiettivi minimi degli Accordi di Parigi. Non il piano necessario a fronteggiare la crisi climatica, dunque, ma pur sempre il migliore tra quelli esistenti.
L’Unione Europea, ancora in piena emergenza Covid, è stato il primo continente a darsi una data per il raggiungimento delle zero emissioni nette e un obiettivo intermedio al 2030; il primo a legiferare lo stop alla vendita di auto a combustione interna; il primo a darsi tappe precise per l’efficientamento energetico degli edifici. I soldi investiti in energia pulita fanno crescere le rinnovabili nella totalità dei paesi membri.
Un inizio, insomma, che rischia però ora di rallentare bruscamente. Già alla fine dello scorso mandato la Commissione europea ha dato segni di ripensamento. La tanto attesa Tassonomia ambientale europea, che doveva nelle intenzioni promuovere investimenti verdi, ha finito con l’includere anche il gas. La riforma della Politica agricola comunitaria è di fatto fallita, lasciando il settore agroalimentare senza un piano di transizione. I vincoli di bilancio hanno mostrato tutti i loro limiti nel contesto della transizione. In Germania, dove il tema è particolarmente sentito, la difficoltà di conciliare rigore ed ecologia ha contribuito a far precipitare la popolarità dei Verdi al governo.
In questo contesto, la guerra in Ucraina ha permesso alle multinazionali del settore di cercare nuovi venditori di gas per l’Europa con il pretesto della crisi energetica. Esemplare in questo l’esempio italiano. Mario Draghi e Luigi Di Maio, ancora al governo, hanno girato Africa e Medio Oriente alla ricerca di gas assieme al direttore di Eni Claudio De Scalzi. Draghi e Di Maio non frequentano più Palazzo Chigi, ma De Scalzi è ancora al suo posto e la linea è stata sostanzialmente confermata dal governo Meloni col suo Piano Mattei. La crescente ostilità alle politiche climatiche, esemplificata dal movimento dei trattori, ha fatto il resto.
Il Parlamento Europeo appena eletto è il più a destra di sempre, e una buona parte dell’emiciclo ha centrato la sua campagna elettorale proprio sulla lotta contro le «follie green». L’European Green Deal avrebbe bisogno di un salto in avanti per funzionare ma, in questo contesto, sembra difficile anche solo difendere quanto già deciso. E mentre il vecchio continente rischia di fermarsi, le altre potenze recuperano. Tra mille contraddizioni e pur senza inimicarsi eccessivamente la lobby del fossile, la presidenza Biden ha varato gli investimenti verdi più importanti della storia statunitense. La Cina – primo emettitore mondiale e primo consumatore di carbone – installa più rinnovabili di tutto il resto del mondo messo assieme. All’Europa piace pensarsi come capofila dell’ambizione climatica. Ma tra scarsa convinzione dell’establishment, lobbismo e ascesa delle destre rischia di perdere il primato.
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