La repentina retromarcia del nuovo governo britannico sul progetto di tagliare le tasse ai ricchi, conclusasi con le dimissioni di Liz Truss, è indicativa della fase che stiamo vivendo. I commenti prevalenti interpretano la ritirata del provvedimento fiscale come effetto di una reazione, innanzitutto dei mercati finanziari, a una scelta insostenibile sul piano contabile.

La novità che sorprende è che la decisione della Gran Bretagna di ridurre le tasse a chi ne dovrebbe pagare una quota rilevante, decisione ingiusta e insopportabile sul piano sociale, sia stata bocciata anche da chi in linea teorica potrebbe beneficiarne. Il provvedimento darebbe vita a uno sconquasso del bilancio pubblico tale da essere giudicato insostenibile dall’alta finanza sul fronte del debito pubblico e della futura capacità d’intervento del governo. Da qui la fuga dalla sterlina e il rialzo dei tassi che, sommati alla fase di decisa inflazione e recessione alle porte, hanno innescato un terremoto politico.

Insomma, le dimissioni della Truss sarebbero anche la risultante di un’opposizione dei mercati e dei grandi regolatori finanziari globali, dalle agenzie di rating al Fondo Monetario Internazionale, i quali hanno giudicato fuori posto il dogma neoliberista che coniuga l’austerità con la riduzione delle tasse per ottenere un rilancio della crescita economica. Indubbiamente l’isolazionismo a seguito della Brexit ha indebolito il paese, e le difficoltà di questo periodo (pandemia, guerra, inflazione) hanno un particolare peso specifico a Londra, rendendo oltremodo fragili i conti pubblici. Basti pensare che ormai, in termini di rischio, i titoli di Stato sono paragonabili a quelli di Italia e Grecia. Tendenza sintetizzata dall’efficace titolo di un articolo dell’Economist: Welcome to Britaly. Da qui lo scatenarsi dei più feroci detrattori della Brexit. Ma a ben vedere la vicenda ha implicazioni più vaste. Come scrive Roberto Petrini sull’Avvenire «i mercati si sono dimostrati allergici al mercatismo».

L’impressione è che dietro l’accerchiamento politico-finanziario vi siano ragioni di ordine strategico. Si tratta di comprendere come si stia imponendo una nuova gerarchia di priorità che determina un ritorno dello Stato. Un ritorno che non significa riesumare la funzione di compromesso sociale di socialdemocratica memoria, ma rendere ancora più funzionale lo Stato al mercato (di quanto già non fosse negli ultimi anni) nel fronteggiare i macro-problemi che si registrano nel presente. Basti pensare al potenziale ruolo di investimenti e garanzie pubbliche necessario per mobilitare capitali nella direzione di un’economia eco-sostenibile.

Un piano eccezionale, globale, che non potrà che essere incentrato sul ruolo degli Stati. Centrale sarà il ruolo dello Stato sul piano geopolitico, sui mercati energetici, per fronteggiare nuove pandemie. Il medesimo discorso vale nel campo tecnologico e, perché no, nell’impegno a ridurre le differenze socioeconomiche. Anche queste ultime, superato un certo livello di guardia, rischiano di essere destabilizzanti anche per il capitale. Da un lato, dunque, continua ad affermarsi l’ideologia della mano invisibile del mercato che dà vita a concentrazione e iper-competizione, dall’altro emerge la necessità di pianificazione, coordinamento, investimenti della mano visibile pubblica per salvare e rilanciare il sistema nel suo complesso.

Ecco allora affermarsi una sorta di socialismo del capitale. Indice di quella fase matura del capitalismo che, sconfitto il suo principale e storico avversario (il socialismo), ne recupera elementi specifici per superare i limiti emersi nella sua corsa senza freni. Non è un caso che solo un pugno di paesi, tutto sommato periferici, applichi in questo momento la riduzione delle tasse ai ricchi.
Vedremo cosa succederà in Italia con la Flat Tax, ma, intanto, persino Confindustria dichiara di non essere interessata a tale prospettiva.