Nelle pagine fin troppo efficaci della sua autobiografia intitolata Una specie di vita, dedicata esclusivamente agli anni della turbolenta giovinezza – screziata dalla depressione e dai primi sintomi del disturbo bipolare –, Graham Greene raccontava di aver praticato ripetutamente l’«esperimento» della roulette russa con una pistola trovata per caso nel suo armadietto al college. Il fatto divenne così noto che Gabriel Garcia Márquez gliene chiese conferma durante un incontro a Cuba alla presenza di Fidel Castro, il quale a sua volta rise delle scarse probabilità che Greene fosse sopravvissuto per arrivare a L’Avana a testimoniarlo; e ancora oggi, sfidando la noia esiziale che contraddistingue il discorso attorno «alla vita e al tempo» di Greene, l’editore Little, Brown and Company ritiene di dover intitolare una biografia aggiornata alle ultime ricerche, appunto, Roulette russa (titolo mutuato anche da Sellerio nel 2021). E questo nonostante sia lo stesso autore di quel libro, l’omonimo Richard Greene, a diradare una volta per tutte la nebbia da questa e da altre divagazioni mitologiche sullo scrittore inglese: l’aneddoto della roulette russa è falso (per ammissione – ancorché sussurrata a mezza voce – dello stesso Graham Greene, da vecchio).

Il biografo, e l’editore palermitano lieto di accogliere nel proprio catalogo un autore che fu «anche agente segreto di Sua Maestà Britannica» (come recitano gli enfatici cenni biografici sull’aletta), hanno dalla loro il fatto che il principale artefice di questa rappresentazione filmica con trench e rivoltella fu lo stesso Greene, romanziere schivo ma non troppo, il quale, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – durante la quale svolse marginali e sedentarie mansioni per i servizi di informazione, in Africa e a Londra – si adoperò per assecondare una revisione del suo personaggio pubblico, come avrebbe detto lui, «con parole, opere e omissioni». Ancora grazie a Sellerio, una delle più vistose e brillanti impronte di tale manipolazione si può ora leggere anche in italiano, nel «taccuino dei sogni» che Greene curò negli ultimi mesi di vita, e che fu pubblicato poco dopo la sua morte: Un mondo tutto mio (tradotto da Chiara Rizzuto con testi di Domenico Scarpa, Vittorio Lingiardi e Yvonne Cloetta, l’ultima compagna di Greene, pp.164, € 14,00).

Nonostante il titolo, in un certo senso rivelatore (per negazione), in questo taccuino di privato non c’è quasi niente. Greene sottolinea nella nota introduttiva di avere trascritto, da un cospicuo quaderno manoscritto «di oltre ottocento pagine», quanto di più interessante gli sembra di aver trovato. Dal punto di vista strettamente psichico, si direbbe vero il contrario: Un mondo tutto mio pare a tratti il diario di viaggi di un eccentrico funzionario delle Nazioni unite – figura alla quale lo stesso Greene sembrò voler aderire, nell’ultima parte della sua vita, con insospettabile dedizione. Da una passeggiata con Fidel, occasione per constatare la povertà ai Caraibi, si passa a un contorto colloquio di pace con Chrušcëv; da un tentativo infruttuoso di assassinare Goebbels, nientemeno, ci si tuffa nel Vietnam di Ho Chi Minh infestato dai bombardieri statunitensi; e così via, di visita ufficiale in visita ufficiale. Complice la suggestiva suddivisione dei sogni in capitoli tematici, al lettore incredulo – che mai ha complottato per eliminare Putin o Bin Salman nella sua improvvisamente pusillanime attività onirica – viene ben presto il dubbio che buona parte della materia psichica dichiarata da Greene sia il frutto della sua penna vigile piuttosto che della zelante attività filantropica svolta nottetempo, o perlomeno di una maliziosa interpolazione tra i due momenti.

Superato l’iniziale spiazzamento, i brevi appunti di viaggio, di guerra, e di «felicità», come si intitola la prima parte in cui Greene muove, per esempio, «via fiume fino a Bogotà» accanto a Henry James, non tardano a conquistarsi uno spazio di godibilità tipicamente ascrivibile alla narrativa dell’autore di Il potere e la gloria. La sua prosa lineare, diretta e quasi priva di aggettivi e avverbi calza alla perfezione all’andamento rapsodico e lacunoso richiesto dalla descrizione di un sogno, tanto che, esauriti i racconti, aumenta il rammarico già provato alla lettura della introduzione, nella quale Greene avvisava di aver espunto dalla selezione la sfera sessuale e gli incubi. Peccato, perché lì, secondo le testimonianze indirette raccolte da diversi biografi, avremmo trovato Greene che fa sesso con la bellissima compagna del suo psicoanalista di gioventù, o Greene che ammazza brutalmente lo scrittore rivale che gli ha intentato causa per plagio; e forse, come Castle, indimenticabile protagonista di Il fattore umano (Sellerio, 2021), avremmo letto di notti «piene di sogni formati da spezzoni di un passato che lo perseguitava fino alle prime luci del giorno».

Tutto sommato, è quanto non si trova in Un mondo tutto mio: queste brevi finzioni d’autore provengono da uno scrittore anziano, consapevole del proprio status – («forse un giorno qualcuno penserà a me come si pensa a Flaubert», disse poche settimane prima di morire, nel corso di una conversazione privata) – tanto solido nello stile da essere in grado di resistere persino a se stesso, e alla propria leggenda personale, cancellata e riscritta a più riprese. E se la scrittura letteraria trasfigura e re-inventa l’esperienza del mondo che l’autore fa o immagina a occhi aperti, perché non dovrebbe essere un esperimento di finzione pura quello di trascrivere le tracce mnestiche della propria esperienza nel mondo notturno? Quanto alle opere e alle omissioni, poi, si sa, è prerogativa di un vero agente di Sua Maestà Britannica: non lasciare mai tracce dietro di sé.