Caso non del tutto infrequente, Graham Greene è uno di quegli scrittori del Novecento europeo che hanno commentato la propria opera fino allo sfinimento. Ciò si deve forse alla celebrità, al fatto che egli fosse costantemente braccato dalle richieste di interviste, di auto-prefazioni, risposte, e interventi cui peraltro si concedeva volentieri; ma anche all’attitudine, che lo accompagnò fin dagli esordi, a ingaggiare battaglia contro chi si occupava dei suoi libri a mezzo stampa (secondo lui, male). Di Brighton Rock parlò con affezione altalenante, a partire dal rimorso per non aver soppresso la prima parte, ovvero l’abbrivio di un noir poi virato a tutt’altra cromatura. L’accusa pare scellerata: i capitoli iniziali del romanzo, nei quali agisce un protagonista che dopo settanta pagine scompare per sopraggiunto soffocamento da bastoncino di zucchero (denominato «Brighton Rock»), sono gli unici ordinatamente logici e consequenziali di tutto il libro, e fungono perfettamente da preludio alla confusa parabola che seguirà, lasciando spiazzato il lettore – la disposizione più fertile per chi legge – e costituendo in se stessi un prototipo di quel MacGuffin che negli stessi anni Alfred Hitchcock andava sperimentando nei suoi film.

Questa considerazione, se legittima, restituisce la dimensione di una certa inconsapevolezza di Greene rispetto ai pregi del suo romanzo. Ottantacinque anni dopo la pubblicazione di Brighton Rock (1938) – che ora esce ritradotto da Alessandro Carrera per Sellerio (pp. 454, € 16,00), racchiuso tra la presentazione di Giorgio Fontana e la postfazione di Domenico Scarpa – la discussione attorno al valore del libro, rimasta in bilico fin dai tempi della critica contemporanea allo scrittore inglese tra gli sperticati elogi di alcuni e i dubbi di altri (Scarpa ricorda il cauto apprezzamento di Borges, che pure preferiva i racconti brevi di Greene, la perplessità di Moravia, e più recentemente il tiepido beneplacito di J.M. Coetzee), rischia, sotto gli occhi del lettore odierno, di arricchirsi di ulteriori pareri oppositivi. Perché se è pur vero che non ha più mordente la distinzione tra entertainments e quelli che per il caso diversissimo di Georges Simenon furono detti romans durs, e va così in archivio la già citata obiezione a se stesso dell’autore; e se pure le polemiche coeve sulla  fumosa questione del romanzo a chiave (con riferimento al cattolicesimo più o meno blasfemo, più o meno fervente dell’autore) non troverebbero oggi nessun occhiuto difensore; tuttavia ciò che arriva oggi da Brighton Rock, attraverso questa fresca versione italiana, si direbbe un testo di fattura incongrua, la cui matrice non è reperibile.

Quale editor, infatti, concederebbe al proprio autore di utilizzare la metafora del bastoncino colorato con sopra scritto, appunto, «Brighton Rock», per lamentare la tragica immutabilità della natura umana? Quale lettore o critico non eccepirebbe la piatta, assoluta implausibilità dei tre personaggi principali? (Il diciassettenne Pinkie, che ha sul manico del coltello diverse tacche, e che dovrebbe incarnare il male in terra, sembra, rispetto ai mostri dell’attualità letteraria e non, un aspirante ammazzasette da fumetto, più vittima che carnefice, come forse aveva insinuato già lo stesso Greene). E che titolo proporrebbe, quell’ipotetico editor, per questa grottesca vicenda? Riassumerla è semplice: un gangster minorenne nella cupa Brighton degli anni Trenta decide di sposare una donna che lo ha colto sul fatto, in modo tale che ella non possa poi essere costretta a testimoniare in tribunale contro suo marito («Cerano solo due persone che potevano farci impiccare, Spicer e la ragazza. Spicer lho ammazzato e la ragazza me la sposo. Più di così non posso fare», dice Pinkie). Quello che segue è un accumulo di momenti tragicomici: «‘Sei stato meraviglioso’, disse lei, innamorata in mezzo allodore di latrina, ma la sua lode era veleno: era il segno che lei lo possedeva»; «Non li avevo mai visti cambiare umore così in fretta. Gli devi essere proprio piaciuto», dice a un certo punto Rose, la povera «promessa sposa», appena dopo che Pinkie ha concluso la trattativa pecuniaria con i genitori di lei perché acconsentano al matrimonio tra minori; e poi il trionfo dello squallore nel giorno dello sposalizio, quando il prete legge i voti in fretta e furia perché si vergogna, e Pinkie non riesce a stargli dietro nel ripetere la formula rituale. Il sacerdote si lagna della lentezza del figliolo, e quello: «E lei vada più adagio»; fino al momento più smaccatamente diabolico in cui Pinkie registra sul disco di ebanite un messaggio che la sposa ascolterà soltanto in un momento indefinito oltre la fine del romanzo. Lei crede si tratti di una frase d’amore, una smanceria, e invece lui incide il seguente testo: «Che Dio ti maledica, stronzetta». Accogliendo le sfumature umoristiche, forse il titolo sarebbe potuto essere Scene da un matrimonio. E dunque, Greene si prende sul serio oppure no?  Perché, tutto sommato, il grottesco di questi passaggi colora il romanzo molto più efficacemente delle citazioni bibliche o delle sottolineature stucchevoli del tipo: «Una specie di sensualità lo spingeva: laccoppiamento del bene con il male» (durante la prima notte di nozze, che sfiora il comico involontario nei sommovimenti in cui i due novelli sposi, ancora minorenni, esperiscono il «Peccato mortale», il «Peccato incancellabile». E che sarà mai), e accompagna il romanzo nel suo andamento felicemente sbilenco, sorretto anche dalla indagine che Ida, la detective improvvisata, porta avanti per salvare Rose dalle grinfie di Pinkie.

Venendo a mancare sotto i piedi del lettore il terreno improbabile del «tema cattolico», nascosto o patente, complice anche il fatto che di per sé oggi né il sacramento del matrimonio né l’esistenza dell’Inferno sono argomenti che godano di un interesse particolarmente diffuso, ciò che si riversa nei vuoti di Brighton Rock, che non sarà uno dei migliori romanzi di Greene, ma resta tutt’oggi un fascinoso oggetto romanzesco, è una discreta demenza, nel senso che Giorgio Manganelli avrebbe dato alla parola: quanto più riecheggiano i Salmi e i pedanti sermoni di John Donne, tanto più riluce il senso stralunato delle vignette di un sempre più disperato Pinkie e di una sempre più placida Rose, mentre tutt’attorno a loro il mondo sembra prendere «maledettamente sul serio» la loro unione, ciò che rende l’ambientazione della città di mare inglese, magistralmente tratteggiata, via via più asfissiante («E come no. Tu hai viaggiato, Dallow. Tu conosci il mondo». «Non ci sono molti posti che io non conosca», confermò Dallow, «tra qui e Leicester»).

Non resta che liberare Pinkie, rivisto e riconsiderato alla luce del cupo presente, dalla sua etichetta di «incarnazione del Male», e sottrarlo, forse, alle grinfie del suo stesso autore: anche lui è una vittima, in fondo: «Dei ragazzini giocavano a guardie e ladri tra i detriti impugnando pistole prese da Woolworth. (…) Mani in alto! Lo riportavano al passato, e per questo li odiava. Era come il tragico appello dellinnocenza, ma lì di innocenza non ce nera. Bisognava tornare parecchio indietro per trovare dellinnocenza. Linnocenza è la bocca che sbava, la gengiva sdentata che succhia il seno, e forse neanche quello. Linnocenza era il brutto vagito di chi nasce».

E dunque sì, anche se il suo romanzo gli resiste, Graham Greene si prende sul serio. E scrive con ambigua destrezza le parole «Bene» e «Male», «Giusto» e «Sbagliato». Pinkie viene attratto da un cavillo giuridico che lo convince malignamente a sposare Rose. Un cavillo fu anche ciò che preservò la dignità di Greene, e gli impedì di partire, nel ’36, per la Spagna, e arruolarsi tra i ranghi dei buoni e dei giusti: i falangisti condotti da Francisco Franco, mobilitati in difesa dei sacri valori cattolici. Il romanziere non ricevette assistenza logistica, e dovette starsene  a casa, a scrivere Brighton Rock.