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Graham Greene e il romanzo col trucco: un’avventura

Graham Greene e il romanzo col trucco: un’avventuraMaggie Smith in «In viaggio con la zia», 1972

Divagazioni Nel suo «In viaggio con la zia» lo scrittore (e spia) inglese presentava un personaggio femminile insolito e affascinante, portato poi sullo schermo da Maggie Smith nell'adattamento di George Cukor del 1972: zia Augusta, che sotto gli occhi porta, dettaglio rivelatore, un vistosa linea di maquillage: una maschera

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 10 agosto 2024

Qualcuno tra i lettori ricorderà di certo il personaggio femminile, la zia Augusta, del romanzo di Graham Greene In viaggio con la zia, interpretata nel lontano 1972 da Maggie Smith. La vicenda ruota intorno alle avventure picaresche della eccentrica zia e del suo supposto nipote, Mister Pulling, cinquantenne direttore di banca in pensione anticipata, che la incontra al funerale della madre dopo che lo strano parente era sparito dalle frequentazioni di famiglia dai tempi della sua nascita.

L’arzilla settantacinquenne trascina il timido Henry, tranquillo e conformista, impacciato con le donne e con la vita, in un turbine di viaggi attraverso mezzo mondo, senza uno scopo apparente, che si concludono infine in America Latina, dove si dipana il filo del complicato disegno ordito dalla zia, che punta al ritrovamento di un misterioso grande amore italiano (di nome Visconti) di cui si è persa traccia dopo la guerra.

Attraverso frontiere apparentemente chiuse al loro transito ed espedienti che pian piano fanno maturare in Henry una vertiginosa verità, la pazza corsa termina nel Paraguay del dittatore Stroessner amico dei capi nazisti in fuga, dove il grande amore della zia viene ritrovato, come pure la verità sulla vera madre di Henry. E qui per Pulling inizia una vita nuova: l’interminabile viaggio con la zia ne è stata l’iniziazione.

Nella descrizione del personaggio, Greene si sofferma ad un certo punto sul pesante trucco per gli occhi della zia Augusta, che Henry rimarca tra sé e sé al primo incontro. Per tutta risposta allo sguardo del nipote la zia inarca le sopracciglia tinte di scuro, come pure lo sono le rime palpebrali, che evocano una esotica ascendenza orientale, aumentando così la già fitta aura di mistero che perplime l’ingenuo nipote. Nel bagaglio culturale di Greene, notoriamente spia inglese, vi era sicuramente molta retorica «orientalista» secondo la definizione di E. Said che, in alcuni capitoli del suo omonimo saggio, si sofferma sulla «fisiognomica» che gli occidentali attribuiscono ad una certa parte del mondo. Tra i tratti distintivi della cosmesi orientaleggiante, ma non solo, vi è certamente l’uso del kohl, una polvere nera che serve a sottolineare il contorno degli occhi, cosmetico ben conosciuto ed adoperato anche in epoca moderna.

Ma come tutto ciò che ha un uso in apparenza solo estetico, la funzione del kohl non si limitava in origine solo a questo, bensì aveva, ed ancora ha, anche una funzione protettiva per gli occhi. Ed infatti, come ci ricorda J. Lindsay nel suo Le origini dell’alchimia nell’Egitto greco-romano, le tinte egiziane per gli occhi erano disposte su di una specie di tavolozza il cui nome sembra legato alla parola «proteggere», non semplicemente dalle malattie ma anche in senso magico religioso. Le tinte, o i loro ingredienti, venivano spesso citati in relazione all’Occhio di Horo. Se ci pensiamo bene questo potere magico, incantatore, è rimasto ben presente nelle pratiche di cosmesi, anzi si può dire che ne rappresenti l’essenza stessa ancora oggi. D’altra parte il discorso sulla cosmesi ci porterebbe lontano, data l’origine che la parola ha in comune con un’altra: cosmo.

Questa etimologia condivisa non è dunque casuale, bensì fa riecheggiare ancora, in queste pratiche oramai quasi totalmente secolarizzate, qualcosa di sacro, sia in senso cosmogonico, cioè della ricreazione permanente del Cosmo, sia in senso sacrificale, cioè dei gesti di riconoscimento verso ciò che ha ci ha dato l’esistenza. A. K. Coomaraswamy, nel suo saggio Ornamento, chiarisce la relazione essenziale tra l’atto cosmetico e la persona che lo agisce: «La parola greca kosmos significa in primo luogo ‘ordine’, con riferimento sia al giusto ordine o disposizione delle cose sia all’ordine del mondo, in secondo luogo ‘ornamento’ delle donne.

Il corrispondente verbo kosméo vuol dire ‘ordinare o disporre’, e secondariamente equipaggiare, ornare o vestire. In relazione alla cosmesi si può rilevare che nella nostra moderna prospettiva estetizzante l’originario scopo degli ornamenti del corpo risulta del tutto incomprensibile. Il rapporto tra l’ornamento e il soggetto è simile a quello esistente tra la natura individuale e l’essenza: astrarla significa ‘denaturarla’. L’ornamento è dunque aggettivale, e senza aggettivi nulla che abbia un nome può avere un’esistenza individuale».

Truccarsi significa, dunque, sia ripetere il gesto originario della creazione che trae il Cosmo dal Caos, sia fare un gesto sacrificale, cioè di tributo a queste stesse Potenze creatrici. Appare chiaro allora come il kohl, esalti lo sguardo in quanto elemento che richiama l’ordine cosmico esaltando, al tempo stesso, la relazione «tra natura individuale e l’essenza», dove quest’ultima è l’eterna Anima Mundi che tutti sostiene ed alla quale tutti apparteniamo.

Nel mondo antico cosmesi e Cosmo trovano una mirabile sintesi nella figura delle Muse, le fanciulle divine, figlie di Zeus e Mnemosyne, la Memoria. Ed allora prendiamo a narrazione della loro nascita uno degli inni di Pindaro in cui il poeta evoca il momento in cui Zeus stava per festeggiare le sue nozze con Temis, sua prima sposa e madre di Atena. Come ci ricorda D. Susanetti nel suo Luce delle Muse: «Con lo stabilirsi della signoria di Zeus tutto sembrava giunto a una forma perfetta e definitiva. Ma il sommo dio, quasi per togliersi un dubbio, volle interpellare gli altri membri della famiglia celeste: vi era forse ancora qualcosa che mancava? Gli dèi risposero sollecitandolo a creare alcune altre divinità che fossero in grado, con le parole e la musica, di ordinare e ornare (katakosméin) la sua grande opera e l’intero assetto che aveva prodotto. Per questo Zeus subito provvide a generare le Muse. Ma come intendere tale racconto? Kosmos significa ‘ordine’ e ‘ornamento’ e, in quanto tale, indica l’universo stesso. La voce delle divine fanciulle non si limita, semplicemente, a celebrare ciò che è stato creato, ma lo ordina, e nell’ordinarlo, lo adorna: lo dota di significato e di bellezza». Ecco che allora, in modo del tutto complementare, possiamo altresì dire che chi si adorna celebra ciò che è stato creato ricreando così l’universo stesso.

Tornando all’uso che si faceva di questa tinta nell’antico Egitto è interessante notare un altro simbolismo: era usuale dipingere la palpebra superiore con galena e quella inferiore di verde. Ed è proprio dalla parola accadica per galena che deriva la parola araba kohl che, dal significato di una specie di pittura per occhi, giunse infine a denotare una polvere molto fine, quindi uno spirito sottile e finalmente la nostra parola alcool (alcohol). Anche in questi passaggi è quasi superfluo richiamare il legame tra alcool ed ebrezza che ci porterebbe diritti al nostro Dioniso.

Un oggetto centrale nella intricata avventura della zia Augusta e di suo nipote, almeno sino alla verità finale, è quello che ad un certo punto del romanzo appare come un umile mattone che serve a fermare la porta di un ripostiglio doganale dell’aeroporto londinese di Heathrow: «Un pesantissimo lingotto d’oro era stato rubato da un caricatore di valige, ma il furto venne scoperto. Per conseguenza questi si rese conto che tutti sarebbero stati perquisiti dalla polizia e così lo immerse nel catrame e lo utilizzò per bloccare la porta del magazzino della dogana. Rimase così per anni e nessuno se ne accorse mai».

Naturalmente il lingotto viene poi recuperato con uno stratagemma facendo la fortuna della zia, fortuna ben presto dilapidata come le altre che l’avevano preceduta. Ma questo lingotto d’oro tinto e lasciato come fermaporta, ci richiama alla relazione tra immaginazione e realtà e più in particolare proprio tra lo sguardo e ciò che esso percepisce o meglio di ciò che esso immagina.

Come ci ricorda E. Zolla nel suo Verità nascoste esposte in evidenza, proprio come il mattone d’oro semplicemente dipinto di nero, «immagine» e «immaginazione» hanno la stessa radice di «imitazione». L’immaginare e l’imitare semanticamente dunque si sovrappongono (in cinese xiàng vale sia per imitare che per immaginare). Si risale così alla radice indo-europea mei, che doveva indicare tutto ciò che di mutevole e intermittente seduce l’attenzione.

Non a caso, nel romanzo, sono altri furti che ben presto distolgono l’attenzione dalla scomparsa del lingotto. Ma le analogie tra lo sguardo e l’inganno non terminano certo qui: poiché il mondo della luce e quello del suono sono paralleli, e qui come non andare subito alle scenografie dei grandi e piccoli concerti dove oramai la commistione luci e suoni è inscindibile?

E a proposito di verità nascoste, un altro aspetto del prisma di inganni tessuto dalla zia e dal suo misterioso amante Visconti, è certo quello che attiene alla personalità di questo «uomo intoccabile» come viene definito dalla stessa zia Maggie. Chi è in realtà Visconti? Un esule, un avventuriero puro o forse addirittura un criminale di guerra ricercato per reati commessi contro l’umanità? Ecco che entra qui in gioco la famosa «macchina della verità», in inglese lie detector, che abbiamo visto in tanti film di spionaggio degli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso. Forse alcuni ricorderanno la pellicola Il Serpente con Yul Brynner, Henry Fonda e Dick Bogarde, oltre ad un cammeo della seducente Virna Lisi, in cui la spia sovietica trae in inganno la «macchina della verità» sovrapponendo due diverse reazioni alle domande più insidiose.

Anche Visconti sarà sottoposto alla stessa procedura ma, come molti altri prima di lui, a partire proprio dall’inventore del «poligrafo», altro nome della «macchina della verità», sarà in grado di ingannarla, avendo organizzato per anni il suo stesso condizionamento in vista delle domande decisive.
E infatti, come ci dice lui stesso, ogni mattina si faceva svegliare dal cameriere con la formula: «Buongiorno Visconti criminale di guerra!».

Ora, l’idea che mentire provocasse effetti secondari fisiologici, quali l’aumento del ritmo cardiaco e di quello respiratorio, della pressione sanguigna e della conduttività elettrica della pelle, che si altera poiché il corpo secerne sudore che riduce la resistenza, è stata a lungo argomento di ricerca. Alla fine dell’Ottocento A. Mosso inventa prima il pletismografo e poi lo sfigmomanometro, apparecchio ancora oggi in uso per misurare la pressione sanguigna.

Questo stesso apparecchio, sulla base dell’ipotesi delle modificazioni pressorie in caso di menzogna, verrà usato dal famoso criminologo C. Lombroso, padre della fisiognomica criminale In realtà l’idea che alcuni tratti somatici fossero indice di devianza è peraltro molto antica; ve ne sono prove già nell’Iliade in cui il comportamento dell’anti-eroe Tersite è collegata alla sua bruttezza fisica, e persino alcune leggi medievali sostenevano che nel caso in cui due persone fossero state sospettate di un reato, la colpa sarebbe dovuta ricadere sulla più deforme. Ma il poligrafo moderno ha origine nel 1913, quando W. Moulton Marston, studente di psicologia dell’università di Harvard, utilizza un test sulla pressione sanguigna per individuare la correttezza di una affermazione.

Marston, il primo a realizzare un poligrafo con le caratteristiche che ancora oggi conosciamo, ne propose l’impiego nei tribunali. Alla fine degli anni ’30 pubblicò il celebre The Lie Detector Test, un libro in cui descrive l’utilizzo del dispositivo e la sua spiegazione teorica. E proprio in questo libro troviamo anche diversi metodi per ingannare la macchina.

L. Keeler dell’università, della California perfezionò ulteriormente il poligrafo. Con il suo Keeler Polygraph contribuì alla risoluzione di alcuni casi della polizia americana, a partire dagli anni ’30. Il caso di un gangster di Chicago, condannato a morte nel 1937 dopo essere risultato colpevole al test del poligrafo, divenne famoso anche all’estero. La rivista italiana La Corte di Assise ne parlò ai suoi lettori, nel 1939.
In particolare la rivista descrisse nei dettagli il drammatico caso: nella prigione di Chicago doveva infatti aver luogo l’esecuzione di un certo J. Rappaport, di 31 anni, gangster, specializzato nel traffico di droghe e probabilmente uno dei capi di una banda che aveva delle ramificazioni nelle città principali degli Stati Uniti.

Questo Rappaport era accusato di aver ucciso con un colpo di rivoltella un informatore della polizia pronto a testimoniare contro di lui riguardo a una vendita di eroina. I giurati, all’unanimità, lo avevano dichiarato colpevole e per questo condannato a morte. Il Governatore dell’Illinois, che doveva autorizzare la messa in opera della condanna o procedere con una grazia, aveva compiuto una approfondita inchiesta senza però riuscire a formarsi una convinzione personale. L’inchiesta durò sino alla vigilia del giorno in cui il termine legale spirava e in cui bisognava prendere a ogni costo una decisione.

A quel punto Keeler si fece ricevere dal Governatore e gli propose «di provare la famosa macchina per scoprire la menzogna». Impiantata la macchina nel carcere venne portato nella stanza il condannato. Keeler spiegò al Rappaport di che cosa si trattava: «Noi vi rivolgeremo una serie di domande differenti. Voi risponderete in tutta sincerità. Vi prevengo che se la curva delle oscillazioni vi è sfavorevole voi sarete giustiziato».

In un silenzio impressionante l’ultimo interrogatorio incominciò. Furono rivolte al condannato una ventina di domande preparate in anticipo. Vi era un certo numero di domande alle quali Rappaport poteva rispondere senza che la sua posizione di accusato corresse pericolo alcuno, ve ne erano altre decisive da cui dipendeva la sua sorte. La macchina segnò «menzogna» a tutte queste domande. Mezz’ora dopo Rappaport moriva sulla sedia elettrica.

Naturalmente il destino del nostro Visconti sarà ben diverso, come sappiamo dal libro, ed anche quello della macchina della verità caduta in disuso nei tribunali, ma ancora in voga come gioco di società dato che modelli casalinghi si possono acquistare in rete e la rivista Vanity fair ha recentemente sottoposto diverse celebrità al test. Provare per credere.

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