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Graham Greene, antiamericani cioè umani

Graham Greene, antiamericani cioè umaniGiorgia Moll e Audie Murphy in una scena di «The Quiet American», 1958, il film di Joseph L. Mankiewicz tratto dal romanzo omonimo di Graham Greene

Novecento inglese «L’americano tranquillo», ambientato a Saigon durante la guerra d’Indocina, uscì nel 1955 e Graham Greene fu travolto dalla critica: ora lo ripropone Sellerio e non ha perso smalto, anzi... Di impianto quasi teatrale, il romanzo esibisce i suoi dilemmi nell’ambiguità dei personaggi: non c’è una «parabola», ma indignazione sì...

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 22 settembre 2024

L’anno scorso in morte di Henry Kissinger – stratega, signore della guerra e per decenni eminenza grigia dietro il presidente di turno degli Stati uniti d’America –, i giornali del suo paese hanno profuso, come era ovvio, pagine e pagine di amari necrologi, nella lettura dei quali non ci si può addentrare se non a costo di una immersione negli orrori che hanno costellato il secondo Novecento, il «mezzo secolo di pace» dell’Occidente. Nel consueto stile compassato, il «New York Times» ha organizzato il commiato più spettacolare: nel pezzo di David Sanger si passa dal sanguinario colpo di stato orchestrato in Cile ai danni di Salvador Allende, alla strage «segreta» di decine di migliaia di civili inermi in Cambogia nel 1970, in chiave anti-comunista, quando il segretario di stato chiese all’air force di bombardare «anything that flies or anything that moves», fino al contributo attivo nel massacro di 300mila persone nell’odierno Bangladesh (10 milioni di profughi), nel contorto quadro strategico di un avvicinamento alla Cina.

Paradossalmente, nella loro chiarezza i «coccodrilli» d’oltreoceano sono stati i più duri: nell’Europa del XXI secolo è diventato raro imbattersi in voci autorevoli che un tempo si sarebbero dette antiamericane. Trovare poi, in Inghilterra, figure di rilievo che si dichiarino non allineate all’atlantismo, di ieri o di oggi, è impresa ancor più ardua. Ecco allora che rileggere L’americano tranquillo di Graham Greene potrebbe significare trovarsi tra le mani un oggetto insolito, quasi un reperto archeologico. In un passaggio decisivo del romanzo, un ufficiale francese di stanza in Indocina rivolge al protagonista e narratore una frase che si ritrova quasi identica nel necrologio di Sanger a proposito del Nobel per la pace (!) dato a Kissinger nel 1973, alla (falsa) fine della guerra in Vietnam («una pace onorevole», dichiarò lui, a disagio con quella parola ai suoi occhi povera, disadorna). Dice il personaggio di Greene: «Noi siamo professionisti. Dobbiamo continuare a combattere finché i politici non ci diranno di smettere. Probabilmente si riuniranno e si metteranno d’accordo sulla stessa pace che avremmo potuto ottenere fin dal principio, e tutti questi anni non avranno avuto il minimo senso». Intempestivo e irresistibilmente opportuno, il grande romanziere inglese; già alla pubblicazione del libro, nel 1955, fu travolto dalle critiche. Greene è antiamericano, si scrisse un po’ ovunque (il «New Yorker» in primis). L’adattamento cinematografico (americanissimo) indignò l’autore, che lo ripudiò come una caricatura nella quale si era perduto lo spirito che animava la sua opera.

L’americano tranquillo – ora riproposto da Sellerio nella già esistente traduzione di Alessandro Carrera (nota di Zadie Smith e bella postfazione di Domenico Scarpa, pp. 368, € 16,00) – è narrato da Fowler, attempato e depresso reporter di guerra inglese, che quando gli chiedono se tornerà a casa risponde «Non a casa: in Inghilterra», e che ha trovato in Indocina una specie di intesa con la bella e remissiva Phuong, dedita alla preparazione di pipe d’oppio per conciliargli il sonno, in attesa di essere sposata e poter abbandonare il campo di battaglia che l’Occidente ha fatto del suo paese. Nella loro vita irrompe Pyle, giovane statunitense che come Kissinger si è laureato con lode a Harvard, ed è venuto in Oriente per esportare, ovvio, la Democrazia, per conto di «uno di quei servizi che vengono inutilmente chiamati segreti». A differenza di Fowler, imbrigliato nelle pratiche di divorzio, Pyle può sposare Phuong, di cui si innamora subito.

Adottando il punto di vista dell’inglese, Greene dissimula, operando il primo gioco di prestigio del suo romanzo: l’odio veicolato per bocca di Fowler potrebbe essere espressione di una mera, privatissima querelle d’amour. Fin da subito il giornalista-narratore si abbandona a salaci commenti su Pyle e i suoi commilitoni:  Pyle è «un americano tranquillo (…) conclusi come avrei detto: una lucertola azzurra, un elefante bianco»; sul triangolo sentimentale: «è così che fate l’amore in America? Conto in banca e gruppo sanguigno?»; Pyle: «pensavo che a tutti gli inglesi piacessero i cani», e Fowler: «Noi pensiamo che a tutti gli americani piacciano i dollari, ma ci devono pur essere delle eccezioni»; il commento su un rozzo e aitante corrispondente statunitense: «Era come l’emblema statuario di tutto ciò che io odiavo dell’America, malfatto come la Statua della Libertà e altrettanto privo di significato».

Fowler ce l’ha con un americano o con l’America intera? All’inizio del romanzo la risposta sembra scontata. Ma via via che egli si addentra nel disastro indocinese al quale si dichiarava estraneo e indifferente, la prospettiva si confonde, e poi si ribalta, quando una bomba «per procura» fa saltare in aria donne e bambine innocenti. Ecco che l’impolitico Fowler ascolta la sentenza più famosa (e fraintesa?) di tutta l’opera di Graham Greene, pronunciata da un partigiano viet minh: «Prima o poi bisogna scegliere da che parte stare, se si vuole restare umani». E Fowler sceglie, anche se «restare umani» può significare perdere la propria innocenza.

Quando il romanzo comincia, Pyle è già morto. Secondo gioco di prestigio: L’americano tranquillo si legge come una sorta di cronaca di una morte annunciata, tutto in regime di analessi, fino al ricongiungimento della narrazione con il suo tempo presente – meccanismo diegetico perfetto –, quando sono in corso le infruttuose indagini della polizia francese sull’omicidio e Fowler ha ripreso Phuong con sé. La prosa avanza nel consueto moto uniforme, affilata: la voce del narratore è spesso cruda, non esente da momenti aforistici. Nonostante le apparenze, le scene esotiche – il bar coloniale di Hanoi, la torre di controllo nella giungla, il commissariato francese a Saigon: puro Greene –, sono quasi tutte statiche e composte di dialoghi. Un impianto teatrale che dà spazio al racconto per svilupparsi in profondità, scavando nei personaggi con maestria, anziché procedere in orizzontale come nel romanzo di genere, che resta per così dire fuori cornice: quanto più i dialoghi sono intensi e pregni di significato (affiorano alcune questioni care a Greene: il matrimonio e il divorzio, la religione…), tanto più grava su di essi l’impressione di un tempo sospeso, mentre fuori imperversano battaglie, agguati, macchinazioni. L’azione c’è, ma salvo una sola eccezione, è quasi sempre in un altrove minaccioso, ipercinetico e instabile.

L’americano tranquillo esibisce i suoi dilemmi nell’ambiguità dei personaggi, senza trarne una parabola ma attenendosi fermamente alla sua essenza di finzione, che crea le proprie regole interne e cattura nelle sue pieghe voci emerse dal caos (ma non quella di Phuong, per i cui «diritti» è sempre Fowler a prendere la parola). Vi si distende una costruzione narrativa mirabile. E vi trova posto una indignazione tutt’altro che retorica, tutt’altro che generica. Poco dopo la sua incerta «conversione», Fowler entra in un cinema dove si proietta un film di buoni sentimenti con Errol Flynn  «ma poteva essere anche Tyron Power, in calzamaglia non so come distinguerli», e ne trae la conclusione che «al giorno d’oggi sarebbe molto più educativa l’immagine di Edipo che emerge con gli occhi sanguinanti dal palazzo di Tebe». Chissà quale governante del suo tempo, e di quelli a venire, Greene avrebbe voluto veder uscire dal proprio palazzo, dopo essersi accecato da solo per la vergogna del proprio operato, come l’eponimo protagonista della tragedia di Sofocle. Oppure no: il re sanguinante dagli occhi è il lettore ideale di Greene, che rispecchiandosi nei suoi personaggi scopre la vergogna di non aver fatto la sua scelta, o di averla subita senza essersene nemmeno accorto.

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