Il dibattito sulla gestazione per altri che si è attivato sul Manifesto è necessario, ma rischia di essere inutile se chi vi partecipa si limita alla difesa di principi sanciti da vecchi o nuovi femminismi. Diventa velleitario, se arriva a sostenere che il diritto – dalla Costituzione in poi – è una garanzia di libertà o di giustizia per le donne. Ed è debole se ci porta a credere che avere dei diritti sia la via che conduce fuori dall’oppressione, mentre il neoliberalismo, che li ha svuotati di ogni contenuto, usa il diritto per affermare la libertà di mercato del più astratto degli individui. Per essere radicale, questo dibattito dovrebbe affondare le sue radici nella realtà: di chi e a chi parliamo quando parliamo di GPA? In che condizione materiale si trova chi vi fa ricorso o mette a disposizione il proprio utero? Chi può fare queste scelte e chi è obbligata a farle?

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Va detto che questo dibattito rischia di avere un esito paradossale. Si parla di una tecnica che svincola la procreazione dalla sessualità ‘naturale’, ma si finisce per fare della maternità il naturale destino delle donne. Per chi vi si oppone, la gestazione per altri è insopportabile perché una madre che rinuncia a curarsi del frutto del suo grembo cedendolo a terzi mette in questione ogni istinto o legame materno. Non deve essere possibile avere un utero senza accettare di realizzare il carattere simbolico e la posizione sociale che esso prescrive. D’altra parte, il sostegno alla GPA finisce per identificare con la sua funzione procreativa la donna che mette il suo utero a disposizione come dono o come merce. Il desiderio di procreare reclamato come diritto attraverso il corpo di una donna rischia sempre di confinare con il dovere che il patriarcato pretende di imporre a tutte le donne.

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È fuorviante spostare il discorso sulla libertà di scelta o sull’autodeterminazione. È vero che la mercificazione delle donne non è una novità, ma non è una novità nemmeno il fatto che per molte donne rendersi merci sia stata una scelta obbligata. Nella storia del patriarcato capitalista lo hanno fatto molte operaie che si sono prostituite dopo la fine del turno perché il salario del padrone magari bastava a sopravvivere, ma certamente non permetteva di vivere. Bisognerebbe prestare la dovuta attenzione alle condizioni materiali che investono la GPA, che è una pratica costosa. Una parte – qualunque sia il suo sesso, genere e orientamento sessuale – può permettersi di pagare cinquantamila euro, o molto di più, per farvi ricorso.

L’altra parte – sempre e soltanto una donna – tramite un’agenzia mette a disposizione il proprio utero e almeno un anno della propria esistenza per avere una vita migliore di quella consentita dal salario orario di 1,5 € che una lavoratrice dei servizi riceve in Georgia, una delle mete privilegiate del cosiddetto ‘turismo riproduttivo’.

Non si comprano né si regalano bambine o bambini, ma la capacità procreativa di una donna la cui scelta di valorizzare il proprio utero è possibile all’interno di un regime sessuato transnazionale che produce profitti enormi per le imprese della procreazione e quote significative del PIL per i paesi dove è legale. Per questo – dopo lo scoppio della guerra – le agenzie ucraine si sono affrettate a giurare che i bunker avrebbero protetto dalle bombe la filiera procreativa. Non è possibile pensare la libertà di scelta senza considerare le condizioni materiali in cui si sceglie e quali rapporti questa scelta riproduce oppure sfida. Di nuova o di vecchia generazione, il femminismo non dovrebbe essere indifferente ai rapporti di classe dentro cui si iscrive la possibilità delle donne di reclamare e praticare la libertà, e nemmeno alle loro condizioni disuguali da una parte e dall’altra dei confini.

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È vero che il riferimento alla GPA viene usato per attaccare le coppie omosessuali e per riaffermare una famiglia ormai dissolta da comportamenti soggettivi che ne sfidano irrimediabilmente la tenuta. La difesa della famiglia impone alle donne di essere madri all’interno di certi rapporti di autorità e secondo una precisa divisione sessuale del lavoro. Per rendere chiaro questo messaggio è stata revocata la registrazione anagrafica dei figli e delle figlie di coppie omosessuali. A essere colpite, oltre a centinaia di bambine e bambini, sono state soprattutto coppie di donne lesbiche che hanno fatto ricorso non alla GPA ma alla fecondazione eterologa, mentre le coppie di uomini gay sono molto poche visto che per loro la GPA è possibile solo in Canada e negli Stati Uniti a prezzi altissimi, anche quando si tratta solo di un rimborso spese per una prestazione «altruistica».

In tutti i casi, la soppressione della libertà sessuale mira a fare dell’eterosessualità un principio che naturalizza le gerarchie e i rapporti sessuati di dominio e sfruttamento istituzionalizzati dalla famiglia. La stessa eterosessualità deve a sua volta essere regolata in funzione della procreazione, soprattutto di fronte a milioni di donne che non sono e non vogliono essere madri, o che lottano per essere madri contro la subalternità imposta dal dominio maschile. La famiglia torna così a essere «il supplemento del welfare», come ha dichiarato a più riprese Giorgia Meloni, garantendo al contempo alle imprese significativi sgravi fiscali per l’assunzione delle donne in condizioni di ordinaria precarietà. Imposta come unico canale di accesso a sussidi miseri non per le donne, ma per le famiglie, la maternità è così trasformata nel paradossale privilegio sociale di lavoratrici e lavoratori poveri e quindi valorizzata ideologicamente per nascondere il feroce attacco che da anni subiscono.

La criminalizzazione universale della GPA – che dal punto di vista giuridico è soltanto ridicola – è la mossa ideologica che rende visibili alcune cose mentre ne nasconde altre. Nasconde il fatto che vi fanno ricorso per il 95% coppie eterosessuali, rendendo visibili soltanto le cosiddette coppie omogenitoriali per attaccare la libertà sessuale di tutte e tutti. Nasconde il fatto che si tratta comunque di poche migliaia di individui che hanno in tasca il denaro per pagare una ‘madre surrogata’, mentre la maggior parte delle donne, in Italia e nei paesi di destinazione del ‘turismo riproduttivo’, fa i conti con la quotidianità dello sfruttamento.

Nasconde chi pratica la libertà sessuale senza avere o rivendicare una famiglia e fuori dall’ingiunzione patriarcale alla procreazione, mentre rende visibile una maternità che è tanto valorizzata simbolicamente quanto materialmente impoverita. Di fronte a tutto questo, il dibattito sulla GPA è davvero necessario. La sua posta in gioco non può essere però un regolamento di conti tra femminismi, ma dovrebbe essere la possibilità di praticare un femminismo che non si compiaccia dei propri principi, ma trovi il proprio senso nella capacità di stare nella realtà per trasformarla.