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Goya, enigma, con e senza Ortega

Goya, enigma, con e senza OrtegaFrancisco de Goya y Lucientes: Vuelo de brujas, 1797-’98 circa (Madrid, Prado)

Divagazione spagnola Dinanzi a un artista così complesso persino il ricorso a uno spirito sottile come quello di José Ortega y Gasset può deludere: qual è il rapporto tra incubi e strumenti del mestiere?

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 luglio 2023

Uno dei pensatori più acuti del secolo passato, a me particolarmente congeniale e spesso citato, José Ortega y Gasset, cercò di spiegare la natura di Francisco Goya ma persino a uno spirito sottile come il suo non riuscì facile decifrare un soggetto così complesso. La mente di ogni vero artista resta sempre enigmatica, come Ortega riassume nella frase finale del suo scritto: «l’opera di Goya non nasce mai con particolare chiarezza e può sembrare lavoro qualunque o veggenza da sonnambulo».
Parole difficili davvero: indicano, se leggo bene, che Goya non sempre fu padrone assoluto del mestiere restando talvolta posseduto dai suoi incubi. Non a caso una delle immagini più note del pittore è un’incisione con un exergo: el sueño de la razon produce monstruos. Si tratta di una famosa stampa nella quale si vede lo stesso pittore oberato dal peso delle sue visioni, tra fogli e matite del mestiere, perseguitato da uccellini e uccellacci accanto a un immenso gatto che sembra indovinare esseri ignoti o piuttosto diabolici.

È dunque giusta la conclusione del filosofo spagnolo? L’arte del pittore non aiuta dunque alla comprensione della vita ma è piuttosto il risultato della chiaroveggenza di un genio o degli incubi di un sognatore?

Alcuni spiriti di altri tempi credevano che nulla è vero se non è vero anche il suo opposto. La vasta umanità, i singoli individui che Goya ritrasse sono irripetibili: non sono né buoni né cattivi, né belli né brutti. Sono come sono, cioè come un pittore in parte simile a loro ma diverso da loro, volle crearli. Seguiamo Ortega: siamo dinanzi all’opera di un artista che ci costringe a vedere così come egli vedeva. Osserviamo, pensiamo, forse capiamo con gli occhi di un altro. I mezzi tecnici sono molto diversi, mutano lungo i decenni. I suoi ritratti più antichi sono leggeri ma con una forza cromatica ricca che si stratifica lentamente e sembra frusciare come tessuti di seta. S’incupisce via via, a misura che la sua ironia si trasforma in un monologo drammatico e le sete delicate diventano velluti rembrandtiani. Dal secolo dei Borbone si passa, con la Rivoluzione, a quello di Napoleone persino in Spagna e i modelli non sono più l’aristocrazia illuminata della propria gioventù ma funzionari imborghesiti poco inclini al sorriso dei tempi nuovi.

Gli animali contano molto nel mondo di Goya, i cani innanzitutto, siano assistenti della caccia o siano bestiole di compagnia, piccoli maltesi infiocchettati come quelli così ben descritti da poeti italiani come il Porta o il Parini. E poi cavalli, gatti, come si è detto, imperscrutabili, e merli ammaestrati (come Goya stesso raffigura nel suo ritratto del figliolino del Conte di Altamira, del Metropolitan Museum, in cui il merlo tiene nel becco il biglietto da visita del pittore). Talvolta gli uomini si confondono con gli animali: il tronfio Ferdinando VII col bastone di comando e il Duca di San Carlos, suo onnipossente ministro, appaiono come un orso in piedi e una volpe riverente nelle due magistrali tele del Prado e di Saragozza.
Mi sono sempre chiesto, senza mai trovare risposta precisa, per quale inspiegabile insolenza il nostro pittore sia riuscito a imporre a Carlo IV e alla Regina Maria Luisa le sembianze che non solo li rappresentano ma li insultano. Sia l’uno che l’altra, nati in Italia, non erano incolti e anzi certamente sapevano come interpretare l’immensa tela che li raffigurava insieme all’intera famiglia. Sorprende che né loro né alcuno dei loro cortigiani ebbe nulla da ridire e bisognò aspettare non poco tempo finché un turista francese scrisse che la famiglia di Carlo IV (sempre rimasta al Museo del Prado) sembrava quella di un pizzicagnolo che aveva vinto la lotteria. Eppure nelle raccolte reali esistevano allora ed esistono tutt’oggi magnifici ritratti dei predecessori dei Borbone – quelli di Carlo V o di Filippo II, ad esempio, dovuti al senso grandioso del Tiziano. A dire il vero lo seppero fare anche ai tempi dei primi Borbone: Filippo V, ad esempio, si fece raffigurare con l’intera parentela in un immenso quadro di Van Loo che non certo si può accusare di risultare sarcastico.

Inoltre non si può nemmeno dire che Goya fosse insolente solo nell’occasione che abbiamo citato prima, ma ogni volta che effigiava Carlo IV e la consorte non aveva il tocco leggero. La regina era la sua vittima preferita, forse perché doveva portare una dentiera di legno e di porcellana che non l’avrà certo abbellita.

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