Goldsmith, un avventuriero letterario con orecchio giornalistico
Società inglese Della cerchia del dottor Johnson, nella Londra di metà Settecento, faceva parte Oliver Goldsmith, irlandese: di cui Aragno traduce i saggi usciti sul periodico «L’ape»
Società inglese Della cerchia del dottor Johnson, nella Londra di metà Settecento, faceva parte Oliver Goldsmith, irlandese: di cui Aragno traduce i saggi usciti sul periodico «L’ape»
A metà del Settecento la Londra del dottor Johnson vantava pregi e brutture di una capitale moderna. «Era una città torva e sordida, incredibilmente sporca … male illuminata, non pavimentate le strade, e prive di marciapiedi, mancavano le fognature. Il traffico era intenso e pericoloso … Montagne di rifiuti. La popolazione era assai fitta, oltre mezzo milione di abitanti, ed era gente rissosa, manesca, villana, litigiosa» (Giorgio Manganelli, Vita di Samuel Johnson, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002). Ma il caso volle che proprio qui nascesse quel giornalismo effimero che ancora prospera, aggressivo, ambiguo, improvvisato, ad opera di spericolati collaboratori mal pagati. Grub Street era il loro covo, da cui emergevano periodici e gazzette di breve vita ma che invadevano taverne, coffee houses, salotti, club, discussi da lettori appassionati, whig o tory che fossero. Le leggi sulla stampa erano permissive, e gli eleganti e istruttivi esemplari dell’inizio del Settecento, The Spectator e «The Tatler» di Addison e Steele, erano ricordati, ma poco imitati.
Il secolo si era imborghesito, e il dottor Johnson, attento umanista, comprende la ricchezza di quella città che tra breve affronterà radicali cambiamenti economici e culturali. «Nessuno può essere stanco di Londra senza essere stanco della vita; giacché a Londra v’è tutto ciò che la vita può offrire». Ne aveva scritto in ben tre periodici: «The Rambler», «The Adventurer», «The Idler» (dal 1750 al 1759), con piglio quasi da antropologo.
Oliver Goldsmith (1728-1774), detto anche Goldy, amico dieci anni più giovane del dottore, faceva parte della cerchia più intima di intellettuali che vantavano l’appartenenza al suo club: il pittore Reynolds, l’attore Garrick, l’affezionato giovanissimo Boswell che immortalerà Johnson nella famosa Vita, pubblicata nel 1791. «Uno dei più straordinari successi nella storia della cultura è stato ottenuto da un ozioso, un ninfomane, un ubriacone, uno snob» – scrisse poi l’invidioso Lytton Strachey.
Goldsmith, irlandese, piccolo e brutto, imprevedibile e spavaldo, pieno di debiti, ma anche di idee, era oggetto di feroci battute del dottore che lo puniva per i suoi arditi slanci oratorii. Ma dopo la sua morte si corresse: «Quando non teneva la penna in mano, nessuno era più sciocco di lui, e quando la teneva nessuno era più saggio». Lo aiutò a pubblicare il suo unico delizioso romanzo Il Vicario di Wakefield nel 1766, più volte tradotto in italiano. Ne scrive anche Manganelli: «… vita irrequieta, studi irregolari, e la vocazione dell’avventuriero letterario; è un efficiente poligrafo, e l’orecchio pronto del giornalista compensa le sue pigrizie di scrittore» (Il romanzo inglese del Settecento, Aragno, 2004).
Ma Boswell, geloso, aveva insistito a lungo sui difetti di Goldy: «Il suo spirito era un terreno fertile, ma superficiale che dava una fioritura rapida ma non robusta, di qualsiasi seme vi fosse gettato. Non vi si potevano affondar radici profonde. La quercia della foresta non avrebbe potuto crescervi; ma gli eleganti cespuglietti e gli ameni praticelli vi si succedevano gaiamente» (Vita del dottor Johnson). E tuttavia quel piccolo e ridicolo Goldsmith che scrive febbrilmente saggi, poesie, un romanzo, una commedia di successo … in una povera soffitta, assillato dai debitori, mortificato dal dottor Johnson per l’entusiasmo che nutre per lo scandaloso Chatterton, troverà secoli dopo chi lo difenderà senza se e senza ma: Virginia Woolf, con sottile tenacia e ferma convinzione: «E tuttavia, le abilità umane sono così stranamente combinate, che doveva solo prendere in mano la sua penna per vendicarsi di Boswell, del gentiluomo elegante che lo aveva disprezzato per quel corpo grossolano e la balbuzie. Doveva solo scrivere e tutto era chiaro e melodioso; doveva solo scrivere ed era tra gli angeli, parlando con lingua d’argento in un mondo dove tutto è ordinato, razionale e sereno» (The Captain’s Death Bed). Per Sainte Beuve è uno scrittore che conferisce charme alla vita; i romantici tedeschi lo ammirarono perché ironico; Manganelli ne loda lo stile dolce e remissivo.
Oggi possiamo leggere la traduzione del settimanale che Goldsmith pubblicò nel 1759 e poi raccolse in volume nel 1765, L’ape, a cura di Daniele Savino (Nino Aragno Editore, pp. L-224, € 25,00). Gli otto «saggi» permettono di tracciare la rotta di questa ape di vocazione europea: Parigi, le Fiandre, l’Italia settentrionale, la Svizzera, paesi che il ragazzo aveva percorso a piedi suonando il flauto nelle fiere di paese. A tratti frequenta qualche università a Dublino, Padova, Edinburgo, Leida. L’ape fa bottino delle idee di Voltaire, Rousseau, Montesquieu, sull’eleganza del vestire, la gestualità degli attori. Dalle Fiandre riporta la necessità della regolamentazione del commercio, del freno al lusso delle cerimonie ufficiali. Auspica che si possa pubblicare anche a Londra una Gazzetta Finanziaria. Che a scuola si insegnino le ultime scoperte scientifiche, la filosofia naturale. In Italia ha saputo della vita e della morte di Caravaggio. Trascrive le parole stesse di Vanini: «‘Dio è l’inizio e la fine, padre di tutto ciò che è stato e che sarà. Lui esiste da sempre, ma al di fuori del tempo. Per lui il passato non se ne è andato, e il futuro è qualcosa che giungerà. Lui regna in ogni luogo senza essere in nessun luogo; è immobile ma non si arresta; si muove veloce, ma nulla si lascia alle spalle. È buono, pur senza qualità; è grande pur senza quantità; è intero, senza parti; è sempre identico a sé stesso. Pur mutando in ogni angolo dell’universo. La sua volontà è il suo potere assoluto; nulla in Lui è assolutamente possibile, poiché in Lui ogni cosa è già reale’. Dopo una tale professione di fede, difficile a credersi, Vanini fu dichiarato ateo!».
Il tema doloroso sempre presente è quello della povertà dilagante, cause e conseguenze. «Per eludere l’artiglio della povertà, dovete far finta che non vi riguardi, così lei almeno vi tratterrà in modo riguardoso»; «la vera utilità della parola non consiste tanto nell’esprimere i nostri bisogni quanto nel nasconderli». Denuncia la crudeltà della giustizia inglese verso le due vittime abituali: il ragazzo affamato che ha rubato una mela, condannato alla ghigliottina, e la povera donna malata e cenciosa mandata al rogo perché strega, assieme al gatto, suo compagno nel volo sulla scopa verso l’Egitto. «La credulità è un errore ben più grave della mancanza di fede e il credere troppo è molto più pericoloso del non credere affatto». L’ape presenta una coerente e ragionata proposta di riforme. Goldsmith, l’étourdi, era consapevole di vivere in una fase di transizione culturale, confusa e decadente, come scrisse in Enquiry into the Present State of Polite Learning in Europe, 1759. Deplora la moda del blank verse, della comicità grottesca degli elisabettiani, la solennità delle maniere di moda nel bel mondo.
A teatro il pubblico è costretto ad ammirare l’umorismo forzato, il concettismo ricercato, l’iperbole innaturale dello stesso Shakespeare. Si mettono in scena vecchi drammi, e poche novità. Nella poesia, spesso citata e poco commentata, The Deserted Village (Il villaggio abbandonato) denuncia la fine della cultura contadina: «Principi e signori fioriscono o appassiscono; / un soffio li ha fatti, e un soffio può rifarli; / Ma una superba comunità contadina, orgoglio del suo paese, / una volta distrutta, non può rinascere». Ai futuri saggisti (Lamb e Hazlitt), Goldy suggerisce il tono e il colore del saggio romantico, Notturno Urbano (pp. 106 sg.): «L’orologio ha scoccato le due e la debole fiamma langue e tremola nel candeliere; il guardiano, sonnecchiando, si dimentica dell’ora, le persone indaffarate e contente si godono il riposo e nulla, ormai, tiene desta la gente, tranne il rimorso, i bagordi e l’angoscia (…) Non voglio più sprecare la notte sulle pagine degli antichi o sulle esternazioni del genio dei contemporanei; meglio seguire il sentiero solitario, là dove la vanità, sempre mutevole, solo qualche ora fa, camminava di fronte a me, là dove insisteva nel mettersi in mostra, e dove adesso, come una bambina ostinata, sembra messa a tacere con tutti i suoi capricci».
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