Nel 1945 il filosofo e storico Gerald Heard scrisse una memoria del suo amico di gioventù Glyn Philpot, morto sette anni prima. La distanza temporale dal decesso concesse a Heard la possibilità di redigere delle righe ben ponderate e nello stesso tempo affettuose, nelle quali elogiò la laboriosità, l’ingegno poetico, l’eleganza dei modi del pittore, definendo la sua figura all’esordio, non senza malizia, come «la giovane promessa della vecchia guardia».

Philpot, in effetti, da giovane ebbe i modi di un vecchio maestro e morì come un artista d’avanguardia, un’avanguardia tutta sua se si vuole, che gli costò non poco in termini di fama e denaro. Tutto era iniziato con il successo riscosso nel 1910 esponendo Manuelito, the circus boy, la figura di un giovanotto in abiti da corrida, in una complicata postura che sembra un passo di danza e uno sguardo malizioso. Se si considera lo scandalo provocato in quello stesso anno da Roger Fry con la sua mostra di Manet e dei post-impressionisti alle Grafton Galleries, Manuelito, opera di un abile ventiseienne, aveva il potere di tranquillizzare il pubblico offrendo una visione tradizionale della pittura di genere, seppure velata di un certo erotismo che all’epoca bastava far finta di ignorare.

Piacque tutto di quella tela: il caldo impasto di colori, l’espressività del soggetto, un certo senso del futile e del decorativo, e il plauso continuò quando fu portata alla Biennale di Venezia di quello stesso anno dove fu comprata dallo Stedelijk Museum di Amsterdam. L’approvazione di pubblico e critica garantì al pittore una clientela di alto livello nel genere più remunerativo, quello dei ritratti di membri dell’alta società, che esponevano le proprie effigi dipinte da Philpot accanto a quelle ancestrali, di van Dyck o di Reynolds, cui si accordavano perfettamente sia per la preziosità tecnica che per la fastosità del carattere. I ritratti femminili esprimevano i requisiti necessari di spirito e di eleganza dichiaratamente altezzosa, sempre attenti al rango della protagonista; quelli maschili sembravano invece respirare un sentimento più intenso e sensualmente partecipe che Philpot materializzò man mano in opere velatamente omoerotiche.

Balthazar (Henry Thomas), part., 1929, collezione privata

Alle prese con modelli professionali o con persone incontrate lungo i numerosi viaggi il pittore si liberò anche dei residui di convenienza sociale creando alcune fra le sue tele più famose in questo genere: The Young Breton (1914, Londra, Tate Gallery), Skyscraper (1925, Bath, Victoria Art Gallery), Balthazar (Henry Thomas, 1929, collezione privata) sono tre fra gli apici dei suoi studi sulla bellezza virile, realizzati con una ricchezza materica e cromatica degna dei prototipi antichi a cui faceva riferimento.

I suoi viaggi giovanili in Spagna gli avevano fatto scoprire Velázquez e Goya, poi Tiziano. Così era andato a Venezia e aveva studiato colori, gradazioni tonali, le velature dei grandi maestri del Cinquecento. In continente si invaghì anche dei soggetti mitologici o biblici e compose tele dai titoli aulici, gravide di ombre e luci in cui sembra citare a caso, con infallibile maestria, da Rembrandt a Gustave Moreau.

Si è scritto molto in tempi recenti sull’erotismo nell’arte di Philpot, e nel catalogo della mostra tenutasi un anno fa alla Pallant House Gallery di Chichester (West Sussex) lo scrittore Alan Hollinghurst ha sottolineato il disagio del pittore nel conciliare il proprio stile di vita e la propria sessualità coi principi del cattolicesimo a cui si era convertito nel 1906. Heard stesso non aveva mancato di accorgersene e nel suo scritto confessava di essersi allontanato dal vecchio amico proprio per la difficoltà di accettare il suo nuovo credo religioso.

La vita di Philpot era divenuta quella di un artista molto ricco, circondato dal plauso, forse affettato nei modi: come tutti i dandy (citando quel che scrisse Cyril Connoly, 1932, nel descrivere una corrente letteraria dell’epoca) detestava la borghesia, idolatrava l’aristocrazia e usava le classi inferiori come il proprio bordello». Salvo poi dipingere soggetti sacri con gran fervore, seppure deviandone l’iconografia: il Riposo durante la Fuga in Egitto (1922, Tate Britain) ha per coprotagonista un centauro; l’Angelo annunciante (1925, Brighton & Hove Museums) è solo, con un anemone in mano, e guarda verso lo spettatore che prende il posto della Vergine, assente.

Poi cambiò stile – non di punto in bianco ma per passi successivi abbandonando le tecniche che gli avevano garantito il successo e impelagandosi talvolta in soggetti sempre più complessi, tra il mitologico e il simbolico, in alcuni casi sottilmente morbosi ma sempre con una gran padronanza nel disegno. The Great God Pan fu rifiutato nel 1933 all’esposizione annuale della Royal Academy per oscenità, e le commissioni andarono calando al punto da costringerlo a vendere la casa in campagna e a ridurre lo stile di vita.

In quegli stessi anni a ripristinarne la reputazione arrivò una commissione prestigiosa, la decorazione parietale dell’ambiente principale di Mulberry House, la casa londinese di Henry Mond e della moglie Gwen. La coppia faceva al suo caso: al centro della stanza, sopra il camino, avevano fatto inserire un rilievo in bronzo di Charles Sargeant Jagger dal titolo inequivocabile, Scandal, raffigurante un uomo e una donna nudi che si baciano fra gli sguardi oltraggiati di una piccola folla. Una dozzina di anni prima Mond, il ricco rampollo di un industriale titolato, si era schiantato in motocicletta davanti a una casa in cui vivevano lo scrittore Gilbert Cannan e la bella Gwen. Curato e assistito aveva poi sposato la fanciulla che aveva posto come condizione che Cannan rimanesse a vivere con loro. Coabitarono per due anni tutti e tre assieme, indifferenti allo scandalo di cui tutta Londra parlava e che divenne poi il titolo per il bassorilievo di Jagger.

All’epoca della decorazione di Mulberry House, Cannan, che Henry James aveva considerato fa le più promettenti speranze della letteratura inglese, era in manicomio ormai da più di un lustro e sembra che i Mond avessero voluto immortalare in quella coppia discinta e allacciata in un abbraccio zigzagante l’amico di un tempo. Philpot, per parte sua, rivestì il fondo delle pareti di una vernice argentata contro cui dipanò soggetti del mito classico in tonalità acquose contro un profilo che simula una selva di grattacieli. La casa venne bombardata durante la guerra ma a quanto pare la stanza sopravvisse al disastro. Ci volle il cambiamento del gusto per decretarne la fine. Dei dipinti diafani di Philpot restano vecchie foto e qualche bozzetto ma Scandal, dopo varie peripezie, è stato acquisito dal Victoria & Albert Museum, e i due amanti di bronzo brunito sono quello che resta di un interno che fece parlare la città.

Philpot morì improvvisamente nel 1937, dopo essere ritornato nel favore di critica e pubblico, tanto da ricevere l’omaggio di una messa da requiem nella cattedrale di Westminster. Il giorno successivo il suo compagno di gran parte della vita si uccise. Pian piano il pittore, però, venne dimenticato o al più considerato un fenomeno marginale difficilmente collocabile. La mostra dello scorso anno ha il merito non solo di averne ricostruito le vicende in un volume ben documentato ma anche di aver illustrato un gran numero di lavori dispersi in collezioni private, prima fra tutte quella del mecenate turco Ömer Koç, onnivoro raccoglitore di ceramiche Iznik e di arte contemporanea, che in un’intervista di qualche anno al Financial Times dichiarò: «I am interested in sex and death» – una frase che non avrebbe fatto alzare le sopracciglia al pittore.