Berlinale ultimi giorni. Nella città tedesca sempre più primaverile – tanto da sorprendere persino i suoi abitanti – il festival sta per arrivare al finale con l’annuncio degli Orsi d’oro sabato sera. Ieri intanto i primi bilanci celebravano il risultato ottenuto finora in termini di biglietti venduti senza dimenticare – come sottolineato dai due direttori, Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek, «la numerosa presenza sul Red carpet di filmmaker in difesa della democrazia» – con riferimento alla serata di apertura in risposta alla presenza annunciata e poi cancellata di esponenti dell’AfD, l’estrema destra tedesca, un tema che ha occupato a lungo l’attenzione nei primi giorni. E l’attualità politica ha continuato a essere presente, i particolare sulla questione della censura verso chi critica Israele su Gaza.

E SE SCORSESE sul tappeto rosso per l’Orso d’oro alla carriera, accompagnato da Wenders (look sempre fra Yamamoto e Comme des Garçon Black) ha fatto impennare i media people, lo stesso non si può dire per la selezione del concorso, che a parte alcune proposte è apparsa poco centrata. Il punto è che in festival di categoria A – come è la Berlinale e come sono Cannes e Venezia – l’equilibrio tra cinema indipendente, industria e star dovrebbe essere più ponderato, mentre spesso qui la differenza delle sezioni è poco delineata in un cartellone che segue un’idea autoriale e indipendente sicuramente interessante ma piuttosto omogenea.

Ieri è arrivato in concorso il secondo titolo italiano, Gloria!, esordio di Margherita Vicario, attrice e cantautrice, che lo ha scritto insieme a Anita Rivaroli e firma anche le musiche con Dade (produce tempesta di Carlo Cresto Dina, sarà in sala il prossimo 11 aprile). E alla sua esperienza di musicista si rivolge per realizzare questo musical femminile ambientato secoli fa ma con una lettura e ricerca fra le pagine storiche di sensibilità contemporanea – e le storie di donne sono al centro di molte opere sugli schermi questi giorni, da Sleeping with a Tiger di Anja Salomoniwtz dedicato all’artista austriaca Maria Lassnig all’autobiografia di Une famille nel quale la scrittrice francese Christine Angot passa dalla pagina scritta all’immagine.

Gloria! dunque, che già dal titolo gioca su più piani, non un nome ma come scopriremo presto quel «Gloria in excelsis deo» vivaldiano che si trasforma facendosi canto gioiosamente liberatorio come i sogni delle giovani protagoniste.
Siamo nel 1800 a Venezia, l’Istituto di Sant’Ignazio accoglie ragazze orfane e povere e le educa alla musica insieme alle figlie della nobiltà. Il prelato Maestro di Cappella che lo dirige (Paolo Rossi) riverito come un geniale compositore, da tempo sembra avere esaurito ogni spinta creativa, aggressivo e sprezzante con le ragazze spende i beni che dovrebbero servire alla vita comune nei regali al giovane di cui è invaghito, pure lui con ambizioni di cantante, e con l’abilità di approfittare della sua debolezza da uomo più vecchio.

Fra le ragazze quattro sorelle sono particolarmente agguerrite, una è Lucia (Carlotta Gamba), suona il violino, compone, progetta di fuggire da lì col ragazzo figlio di famiglia nobile di cui è innamorata, gli echi della Rivoluzione francese sono arrivati anche tra quelle mura. Poi c’è Teresa, la chiamano la Muta (Galatea Bellugi), ha solo stracci addosso e viene trattata da «serva» – specie il Maestro la detesta, non ha diritto di parlare, di dire del suo vissuto che si intuisce traumatico al punto di chiuderla nel silenzio. Teresa protetta lì solo dal custode Romeo (Elio) ha un orecchio musicale speciale, ogni suono che sente, l’acqua dei panni o il fruscio delle scope in terra nella sua testa diventa musica, e anche se non conosce le note, non scrive né legge gli spartiti quando trova una tastiera del pianoforte sa farla vibrare scoprendone l’anima. Le ragazze si incontrano, la diffidenza iniziale si fa pian piano complicità segreta, le note accennate creano canzoni nella grana sonora del nostro tempo, che parlano di amori perduti, di solitudine, di abbandoni, e portano il mondo e le sue violenze in quella strana forma musicale fuori dal tempo. Ma non si tratta del passato «modernizzato» dalle Converse – come portava la Marie Antoinette di Sofia Coppola; pure se le creazioni musicali di Teresa sono molto pop, né di musica «leggera» contro musica colta.

La regista utilizza una ricostruzione e riferimenti storici precisi – l’elezione di Pio VII, il declino di Venezia, la Rivoluzione francese, e come leggiamo nelle note di regia guarda alla figura della sola compositrice di cui, nella moltitudine di quelle ragazze fra gli istituti, è rimasta traccia: Maddalena Laura Lombardini Sirmen, che ispira il personaggio di Lucia. E insieme alle parti più fantastiche compone una narrazione che afferma un’idea molto chiara. Dare voce cioè a coloro che non ne hanno nella storia, con la maiuscola o la minuscola che sia perché donne, tenute perciò in disparte, vessate, costrette a matrimoni senza amore, a rinunciare ai loro desideri, stuprate, abusate.

QUELLA COMPLICITÀ tra le ragazze è una forma di resistenza, qualcosa che le rende forti contro un maschile di padri preti uomini di potere pronti a schiacciarle per soddisfare i propri bisogni. E lo «scontro» musicale appartiene a questa crepa, afferma lo scompiglio nella liturgia del controllo, apre, spalanca, fa vibrare l’energia di questa presa di parola nella quale si gioca la vita di ciascuna. Vicario però non ne fa un dogma, si muove con leggerezza e il film anche in qualche fragilità rivela un’energia vitale, la capacità di mettersi in gioco, di far muovere personaggi e attori con precisione di gesto e sensibilità. Soprattutto lei ama i suoi personaggi, e li fa danzare nei loro cambiamenti, in quell’incontro di desideri con cui inventare una (possibile) rivoluzione.