Gli spari sopra Donetsk
Reportage Dopo gli attacchi indiscriminati dell’esercito ucraino che hanno ucciso anche i civili, la città è deserta. Chi può fugge, chi rimane costruisce barricate
Reportage Dopo gli attacchi indiscriminati dell’esercito ucraino che hanno ucciso anche i civili, la città è deserta. Chi può fugge, chi rimane costruisce barricate
Esplosioni, coprifuoco, spari nel cuore della notte. Dopo che le elezioni presidenziali hanno sancito la vittoria del potente oligarca Petro Poroshenko, Donetsk è diventata terribilmente simile a Sloviansk: una città bombardata, assediata, preda della paura. L’esercito ucraino preme con tutti i suoi mezzi per riconquistare la capitale del Donbass e sembra essere disposto a sacrificarne l’intera popolazione civile se ciò dovesse essere necessario.
L’offensiva, cominciata dall’aeroporto, che è già costata cinquanta morti tra i soldati separatisti ha coinvolto anche altre zone della città causando le prime vittime anche tra i civili (almeno cinquanta vittime secondo fonti filorusse). La situazione è così tesa che la maggior parte dei negozi rimane chiusa fin dalle prime ore del mattino consegnando alle strade un aspetto spettrale. Gli unici ad essere affollati sono i pochi supermercati aperti che accolgono centinaia di clienti in cerca di scorte e provviste per i giorni difficili che verranno.
Una donna accompagnata dal marito che carica in macchina numerose borse della spesa e boccioni d’acqua minerale, si dice molto preoccupata: «Non sappiamo quanto durerà questa situazione, ma speriamo tutti quanti che finisca il più presto possibile. Non si può vivere così. Mio marito da quasi due settimane non può andare al lavoro e poco per volta i nostri soldi stanno finendo. Alcuni dicono che per molto tempo non si potrà uscire di casa, che gli aerei ci bombarderanno, che si sparerà nelle strade. È terribile».
Molti, piuttosto che rimanere e sopportare una simile condizione d’incertezza, preferiscono lasciare la città, almeno per il momento, e così nella sala d’attesa della stazione dei treni si forma una lunga fila di persone che aspettano di ritirare il proprio biglietto.
Non importa la destinazione, l’unica cosa è che possa condurre lontano da Donetsk, lontano dal pericolo dei bombardamenti e lontano dallo spettro della guerra civile. Uomini e donne di tutte le età, anche se per la maggior parte sono giovani e famiglie con bambini, si affannano con ingombranti bagagli su per le scalinate che conducono ai binari. Alina bada al piccolo Misha che dorme nella sua carrozzina mentre alcuni passeggeri del suo stesso treno caricano per lei una pesante valigia: «Noi ce ne andiamo, ce andiamo via da Donetsk. Stare qui è diventato troppo pericoloso. Andiamo a Dnipropetrovsk finché tutto non sarà tornato come era prima. L’unica per cui sono un po’ preoccupata è mia madre: lei non vuole venire con noi. Dice che questa è la sua città, che qui c’è tutto ciò che ha e che, se Dio vuole, lei morirà qui ma non fuggirà mai davanti alla violenza e alla brutalità dei suoi stessi connazionali».
Intanto nei sobborghi vicino alla stazione chi non può partire si è unito alla milizia separatista nella costruzione di barricate sempre più imponenti, con lo scopo anche di proteggersi dagli attacchi indiscriminati dell’esercito ucraino.
«Il mondo intero è rimasto sconvolto quando Grozny è stata distrutta dai russi, la stampa europea parlava della città rasa al suolo dalle cannonate come di un crimine contro l’umanità mentre per Donetsk tutti tacciono…Che differenza c’è tra il Donbass e la Cecenia? Non viviamo anche noi nella paura di morire ogni giorno? Questi sparano sulla loro stessa gente, sulla loro stessa città», dice un signore spingendo avanti una cariola carica con due pesanti sacchi di sabbia.
All’improvviso il suono di un caccia che sorvola la zona interrompe il vociare delle persone tra le barricate. Per un momento tutti si fermano e guardano verso l’alto preoccupati, alcuni si riparano dietro i blocchi in cemento mentre i miliziani impotenti puntano al cielo i loro kalashnikov. Ma non succede nulla. Era solo un falso allarme, un volo di ricognizione, e la gente torna a lavoro con più lena di prima perché la prossima volta l’attacco potrebbe colpire davvero.
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