Rubriche

Gli obiettivi del Pnrr e la posizione di Eni

illustrazione rubrica attenti ai dinosauriIllustrazione – Costanza Fraia

Attenti ai dinosauri La rubrica digitale a cura della Task Force Natura e Lavoro

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 10 giugno 2021

L’occasione del varo e dell’attuazione del PNRR in Italia, degli interventi di rilancio dell’economia post-COVID 19 in Europa, negli USA, in Cina e gli effetti indotti nel mondo stanno creando condizioni speciali, irripetibili, perché quella che è stata battezzata “transizione energetica” sia attuata concretamente e con i tempi scanditi da accordi internazionali ineludibili.

 I fatti

È ormai accettato dalla opinione pubblica mondiale la considerazione che, per contenere entro limiti ritenuti accettabili i danni economici e sociali causati dal cambiamento climatico, dobbiamo azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050. Questa necessità è stata innanzitutto riconosciuta da 190 Paesi del mondo, che hanno firmato gli Accordi di Parigi nel 2015. Molto faticosamente e attraversando indenni l’era Trump, profondo oppositore anche di questa decisione, i dettami dell’Accordo sono diventati irreversibili e obbligatori.

Per contribuire per la sua parte a raggiungere questo obiettivo, l’Europa si è imposta il traguardo intermedio – entro il 2030 – di riduzione dei gas serra del 55% rispetto al 1990.

Clamorosamente, considerata la tradizionale posizione filo-petrolifera e fossile in generale, l’IEA (International Energy Agency, Agenzia Internazionale dell’Energia), nel suo recente rapporto “Net Zero 2050 – A Roadmap for the Global Energy Sector” afferma ufficialmente che, per ottenere questo risultato, occorre che a partire dal 2021 non venga approvato lo sviluppo di nessun nuovo giacimento di petrolio o gas. E sì che l’IEA è sempre stata, in passato, paladina della funzione centrale delle fonti fossili per lo sviluppo dei sistemi economici e della marginalità delle fonti rinnovabili.

 

La posizione dell’ENI

Confinamento della CO2

La posizione più critica, ma insieme cruciale, rispetto al conseguimento di questi obiettivi e al rispetto di queste decisioni è ovviamente quella delle compagnie Oil&Gas; in Italia, dell’Eni.

Guardiamo alla nostra compagnia: in totale contrasto con il quadro sopra descritto, invece di programmare una progressiva diminuzione della produzione e un riposizionamento della sua “mission” in una prospettiva di abbandono delle fonti fossili, nel  suo piano di sviluppo al 2050 l’ENI prevede un aumento delle esplorazioni che porterebbero “2 miliardi di barili di olio equivalente (boe) di nuove risorse nel piano quadriennale” e una crescita della produzione con una media di circa 4% all’anno nell’arco del piano”.

C’è da dire che i piani delle altre grandi Oil&Gas non differiscono da quelli dell’ENI. E ciò può spiegarsi solo con la loro certezza che i combustibili fossili continueranno ad essere centrali per il funzionamento dell’economia mondiale, anche perché esse faranno di tutto perché così sia.

Lo strumento per ottenere questo risultato lo hanno chiaramente individuato nella CCS (Carbon Capture and Storage, Cattura e Stoccaggio del Carbonio) (1). E per questo sono a caccia di finanziamenti pubblici per metterla in atto. E già, finanziamenti pubblici, perché, a parte tutte le altre limitazioni di cui si dirà nel seguito, si tratta di una tecnologia molto costosa ed economicamente ben lontana dalla convenienza.

Cosa c’è che non va in questo programma delle grandi Compagnie e, per l’Italia, dell’ENI che, non dimentichiamolo, è una partecipata dello Stato italiano, che quindi ne è azionista e, per quel che conta in questo contesto, ha una golden share? Non vanno molte cose.

  1. Si perpetua il modello di sviluppo che ci ha portato alla situazione attuale; un modello basato sull’uso di risorse energetiche non rinnovabili, con un approccio lineare del tipo estrai-trasforma-usa-getta che è in contrasto con il modello di funzionamento del sistema Terra di cui facciamo parte, ed è in contrasto con il concetto di economia circolare, pilastro -ormai ineludibile- del Green Deal Europeo. Infatti, adottando la CCS, invece di buttare nell’atmosfera il rifiuto, in questo caso la CO2, lo si sotterra. Certo, la soluzione è attraente per chi la adotta, che guadagna due volte: una volta vendendo gli idrocarburi e la seconda sotterrandone il rifiuto.
  2. Si sottraggono risorse finanziarie allo sviluppo delle rinnovabili, che sono l’unica strada per riportare il nostro sistema economico e sociale in un alveo di sostenibilità, di coerenza con le leggi che regolano il sistema Terra e con i pilastri su cui si fonda il Green Deal Europeo.
  3. È una soluzione dilatoria, che trasferisce a chi verrà dopo di noi il problema del contenimento delle emissioni di gas serra. Infatti, cosa ce ne faremo delle emissioni di CO2 che oggi vogliamo sotterrare nel giacimento esausto quando lo avremo completamente riempito? I posteri si dovranno riproporre il problema e dovranno necessariamente risolverlo con le fonti rinnovabili. E allora perché non farlo subito, spendendo di meno ed eliminando un passaggio inutilmente costoso?
  4. È un approccio poco efficiente, perché richiede l’uso di grandi quantità di prodotti chimici (amine) che poi debbono essere recuperati, riciclati, con grande consumo di energia (fossile). Una indagine condotta su 11 impianti sperimentali di CCS già realizzati ha evidenziato che, tenendo conto delle perdite, e delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso dell’energia occorrente per il processo, con la CCS l’immissione netta di anidride carbonica in atmosfera si riduce di una quota che va dal 63 all’82%, a seconda del tipo di impianto (2). Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma le riduce, e questa riduzione ha un costo economico molto elevato.
  5. Sotterrare la CO2 e contemporaneamente estrarre nuovo gas o petrolio dal giacimento significa usare la CO2 per produrre ciò che poi genererà altra CO2che si dovrà sotterrare. C’è qualcosa che non funziona in questo modello, non funziona per la comunità; certamente funziona, e benissimo, per aumentare i profitti a spese della comunità, che paga.
  6. Non è dimostrata la capacità dei serbatoi naturali di stoccaggio di trattenere efficacemente la CO2 per tempi lunghi; una graduale e silente fuoriuscita in atmosfera vanificherebbe il progetto. Non c’è esperienza per impianti su larga scala.
  7. Comporta un grande consumo di suolo per l’impianto di cattura e per i gasdotti di trasporto.
  8. È un approccio pericoloso, perché:
    1. Non sono noti gli effetti sismici di tale operazione; secondo alcuni ricercatori si genererebbe una sismicità indotta, e il rischio è ancora maggiore in una zona vulnerabile come la costa di Ravenna, dove sono in corso significativi fenomeni di subsidenza. Un evento sismico potrebbe creare fratture attraverso cui la CO2 stoccata potrebbe sfuggire, ritornando in atmosfera; ciò comporterebbe non solo l’azzeramento del beneficio della CCS ai fini del contenimento del riscaldamento globale, ma il rilascio di ingenti quantitativi di CO2 non solo renderebbe vano il tentativo di ridurre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, ma produrrebbe effetti gravissimi per la popolazione (soffocamento).
    2. I siti di stoccaggio di CO2 possono diventare potenziali obiettivi terroristici.

 

Riforestazione

Ma non è solo con la CCS che l’ENI intende continuare a estrarre e far bruciare combustibili fossili, evitando che le conseguenti emissioni di CO2 contribuiscano ad aumentarne la concentrazione in atmosfera. Il piano ENI al 2050, infatti, prevede di dare vita a grandi progetti di riforestazione nei paesi in via di sviluppo, con una progressiva estensione in grado di garantire l’assorbimento di 6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno entro il 2024, di 20 milioni entro il 2030 e di 40 milioni all’anno entro il 2050.

Il che significa che, nei piani delle compagnie, consistenti quantità di combustibile fossile, liquido o gassoso, continueranno ad alimentare il sistema economico mondiale.

Il progetto potrebbe sembrare ragionevole, trattandosi di un tipico “nature based project”, cioè un progetto basato su principi naturali. Ma non è proprio così. Infatti:

  1. I progetti di riforestazione nei paesi in via di sviluppo possono dare luogo a forti ripercussioni sulle popolazioni locali, sui loro sistemi di sussistenza, sulla loro integrità culturale; sebbene l’ENI esplicitamente indichi che questi fattori sarebbero tenuti in conto nei progetti, ci sono seri dubbi sulla possibilità di minimizzare l’impatto sulle popolazioni locali, non foss’altro per le difficoltà intrinseche di farlo.
  2. La riforestazione su larga scala, se effettuata con l’obiettivo di massimizzare la capacità di assorbimento di CO2 da parte della foresta in tempi brevi (cioè decenni), può dare luogo a monoculture arboree che confliggono con la possibilità di garantire la necessaria biodiversità del sistema forestale nel suo complesso.
  3. Per quanto detto ai punti precedenti, i criteri di selezione dei terreni destinati a riforestazione andrebbero sottoposti al vaglio della comunità scientifica, e questo aspetto non viene menzionato.
  4. Tutte le Big Oil&Gas hanno gli stessi progetti; a questo punto, la domanda legittima è: esistono tanti terreni sulla superficie terrestre da soddisfare la fame di riforestazione di tutte le compagnie? Oppure si stanno tutte vendendo lo stesso pezzo di terra?

Ma le perplessità sul piano di sviluppo ENI al 2050 non si fermano qui. Si punta moltissimo sul metano, sia perché continuare a usare metano implica mantenere il valore di quell’asset fondamentale per la SNAM che è la rete che lo trasporta e distribuisce, sia perché il metano, unito alla CCS, permette la produzione di idrogeno blu, che l’ENI cerca di sdoganare equiparandolo a quello verde, cioè quello ottenuto mediante elettrolisi dell’acqua alimentata da energia rinnovabile. Ebbene, sappiamo che le perdite di metano lungo le tubazioni si stanno rivelando estremamente più consistenti di quanto le compagnie Oil&Gas abbiano finora voluto ammettere, e il metano è circa 30 volte più potente della CO2 come gas serra.

Recenti misurazioni effettuate attraverso i satelliti hanno portato a stimare le perdite globali di metano come paragonabili alle emissioni totali di CO2 legate all’energia dell’Unione europea. A questo proposito l’ENI, nel piano al 2050 promette un monitoraggio e controllo stringente delle perdite, almeno per quello che riguarda l’upstream, cioè prima della distribuzione. A parte le riserve sull’efficacia di questi controlli e sulle eventuali operazioni di riduzione, cosa succede delle perdite nella distribuzione?

 

Il contesto cambia rapidamente

Da quanto detto sopra si evince chiaramente che l’ENI sta conducendo una battaglia di retroguardia, disperatamente cercando, come le altre consorelle Oil&Gas, di mantenere lo status quo, cioè il proprio potere e i propri profitti, contro l’interesse generale e contro le decisioni prese dai Governi a livello mondiale.

Osserviamo che si tratta di una strategia che, a parte gli aspetti etici e sociali che pure una società partecipata dallo Stato non dovrebbe potersi permettere di ignorare, è ormai perdente perfino sul breve periodo, come dimostrano alcuni fatti recenti:

  1. La condanna della Shell da parte di un tribunale distrettuale olandese a ridurre del 45% (rispetto a quelle del 2019) le sue emissioni globali (cioè incluse quelle derivanti dalla combustione degli idrocarburi venduti), entro il 2030.
  2. Una piccolissima schiera di azionisti attivisti a favore dello sviluppo sostenibile, sostenuti da grossi azionisti come BlackRock è riuscita a sistemare ben due suoi membri nel consiglio di amministrazione della Exxon: un evento senza precedenti, che ha fortemente messo in crisi la politica della compagnia.
  3. Gli azionisti della Chevron, la seconda compagnia americana Oil&Gas per dimensioni economiche, hanno votato una risoluzione che la invita a ridurre non solo le proprie emissioni, ma anche quelle causate dai consumatori dei suoi prodotti.
  4. Dal 2017, circa 20 città, contee e Stati degli USA hanno citato in giudizio l’intero comparto industriale dei combustibili fossili, chiedendo danni per i costi locali del cambiamento climatico.

 

Il riposizionamento dell’ENI

Non basta tutto questo all’ENI per cominciare a pensare seriamente a trasformare la propria mission, riposizionandosi completamente, sfruttando l’immenso patrimonio di uomini e di esperienza che ha accumulato e mettendolo effettivamente al servizio della transizione ecologica? Potrebbe approfittare dell’occasione offerta dal PNRR e dalle altre risorse che l’Europa sta mettendo in campo per realizzare il Green Deal e rappresentare un caso esemplare rispetto alle altre compagnie Oil&Gas.

I settori su cui ENI potrebbe puntare, contando sulle capacità e le eccellenze che ha già al suo interno e riorientandole, sono -tra gli altri- la chimica verde, la biochimica, l’eolico galleggiante, la trasformazione e la valorizzazione dei rifiuti organici, l’utilizzazione virtuosa del carbonio della CO2 emessa dalla combustione di combustibili fossili, incorporandolo in prodotti utili e durevoli, la produzione di plastiche durevoli, volte a sostituire materiali derivati da minerali sempre più scarsi o la cui estrazione ha un impatto ambientale elevato. E la lista non si fermerebbe qui: si può fare anche molto altro, se c’è la volontà di diventare paladini (e lungimiranti imprenditori) della transizione ecologica, invece di esserne – di fatto – gli oppositori.

 

Note

(1) La CCS consiste nell’estrarre la CO2 contenuta nei fumi prodotti dalla combustione degli idrocarburi (ad es.: emessi dalla ciminiera di una fabbrica o di una centrale elettrica) e immetterla in una tubazione che la trasporta da qualche parte dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando combustibili fossili, la concentrazione della CO2 in atmosfera non aumenterebbe. L’operazione risulta particolarmente vantaggiosa se si pompa la CO2 in un giacimento in via di esaurimento, perché in questo modo si può “spremere” altro idrocarburo che diversamente resterebbe sottoterra. Ed è esattamente questo che prevede di fare l’ENI – come indicato nel suo piano di sviluppo al 2050 – cominciando dai giacimenti sotto l’Adriatico, di fronte a Ravenna.

 

(2) R. M. Cuéllar-Franca, A. Azapagic, Carbon capture, storage and utilisation technologies: A critical analysis and comparison of their life cycle environmental impacts, Journal of CO2 Utilization 9 (2015) 82–102

 

 

 

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento