Gli antichi doni verdi dell’India
Intervista L’antropologa Maria Pia Macchi, che opera dal 2003 nel Tamil Nadu, racconta l’importanza di riportare la medicina tradizionale nei villaggi privi di accesso all’assistenza sanitaria pubblica
Intervista L’antropologa Maria Pia Macchi, che opera dal 2003 nel Tamil Nadu, racconta l’importanza di riportare la medicina tradizionale nei villaggi privi di accesso all’assistenza sanitaria pubblica
Dall’aprile scorso diverse regioni dell’India sono sprofondate nel panico da Covid-19, con le immagini di grandi pire funerarie che facevano il giro del mondo. Un peggioramento repentino in un paese che conta 1,4 miliardi di abitanti e che pre-pandemia (riferiva il Centre for science and environment di New Delhi) registrava 1,7 milioni di decessi per un’ampia gamma di malattie respiratorie.
Ma l’India è anche il paese delle medicine cosiddette alternative ed è un grande errore metterle fra parentesi. Ne è certa Maria Pia Macchi, antropologa italiana e fondatrice di Magia Verde, una onlus che interviene in diversi villaggi del Tamil Nadu grazie a una rete di esperti locali.
Il tuo sguardo sull’India è peculiare per via del vostro lavoro… che notizie ti arrivano da lì anche in questi ultimi mesi?
L’India ha molto da insegnarci, se riusciremo a vedere al di là della paura che fa notizia e annebbia la mente. L’India vanta i più antichi sistemi di medicina del mondo: ormai sono pochi coloro che non hanno sentito parlare delle cure ayurvediche, dello yoga, di una via al benessere che passa attraverso la prevenzione. Una moda per molti, ma – molto più importante – un prezioso sostegno per chi non ha accesso a ospedali e cure mediche. Parliamo del 70% della popolazione indiana. Forse bisognerebbe dare una maggiore importanza a questi sistemi di cura antichissimi, tanto più in questa situazione di emergenza. Penso spesso ai villaggi con i quali collaboro in una costante opera di prevenzione sanitaria basata sulla valorizzazione della medicina tradizionale: Ilanji, Indranagar, Moulalikudiruppu, Kurinjinagar, Sambaravadakarai, nel dipartimento di Tenkashi, in Tamil Nadu. I villaggi, sono la vera India.
E come va in quel contesto?
Da aprile 2020 abbiamo attivato con il partner locale Vivekananda Kendra un programma di sensibilizzazione focalizzato su igiene, sana alimentazione e utilizzo di rimedi casalinghi a base di erbe per prevenire il contagio. Nei casi di estrema necessità, a donne vedove, anziani e famiglie senza lavoro sono stati consegnati anche generi alimentari. Nelle scuole locali sono state distribuite migliaia di piantine utili per tisane e decotti, Justicia gendarussa, Ocimum sanctum, Andrographis paniculata e Adhatoda vasica. Ogni domenica è sempre attivo anche un campo medico di diagnosi e distribuzione di medicine Ayurveda e Siddha grazie alla collaborazione con la dottoressa Kavitha, laureata in Ayurveda, che ci ha segnalato un rimedio Siddha particolarmente efficace per i problemi delle vie respiratorie, la polvere Kabasura kudineer. Inoltre le ragazze della nostra piccola scuola di taglio e cucito, con la loro maestra, hanno iniziato a produrre mascherine di stoffa da distribuire gratuitamente, da usare in caso di viaggi sui mezzi pubblici e situazioni di assembramento.
Questo programma potrebbe fungere da esempio?
Finora si è dimostrato molto utile; ed è un intervento a basso costo, importante anche a livello psicologico poiché ha evitato situazioni di panico, creando un senso di sicurezza all’interno delle comunità. Quando sono partita dall’India la gente mostrava una grande fiducia nei rimedi tradizionali. Per un anno è andato tutto bene, nessun contagio, solo gravi problemi economici visto che in molti con i lockdown hanno perso il lavoro. Poi nel mese di maggio del 2021 mi hanno informata del primo caso di contagio verificatosi tra i nostri beneficiari. Si tratta di una persona che considero di famiglia, il custode e giardiniere della sede del nostro progetto, che chiamiamo ashram, un luogo dedicato al servizio disinteressato. Lui, tutti lo chiamano tata, nonno in lingua tamil, fin da quando, vent’anni fa, è venuto a vivere nella casetta in fondo al giardino. Non so quanti anni potesse avere, forse solo 50, ma era un nonno a tutti gli effetti: aveva già quattro nipotine. Andando a trovare la figlia nella città vicina, Tata si è ammalato di Covid. Lo hanno ricoverato per una settimana in ospedale, senza bisogno di trattamento, i medici si sono complimentati per il suo stato di salute e gli hanno consigliato di continuare le cure Siddha: due volte al giorno prende un decotto di Kabasura kudineer e anche di Adhatoda vasica e di Ocimum sanctum. I medici hanno anche confermato che la sua dieta vegetariana è ottima e si sono stupiti che non abbia il diabete, purtroppo così comune in India. Il “nonno” fa parte della gente ancora così legata alla terra da saperne apprezzare i doni. Tra quei doni, le preziose erbe che curano e nutrono, la cui conoscenza va a tutti i costi documentata e valorizzata, prima che sia troppo tardi.
Qual è la storia del giardiniere dell’Ashram e della sua famiglia?
Sua moglie aveva seguito dei corsi sulla identificazione e l’uso delle piante medicinali. Fu lei a proporre il marito a far da guardiano la notte. Aveva lavorato nelle fabbriche di mattoni per tanti anni ed era stremato e sofferente per quel lavoro pesantissimo e malsano. Da noi avrebbe avuto oltre allo stipendio anche vitto e alloggio e quindi eravamo tutti contenti. La famiglia viveva allora in un piccolo villaggio, su terre donate dal governo ai fuoricasta più poveri della zona. Ogni nucleo era stato dotato di una minuscola casetta di un solo locale in cui vivevano una media di quattro o cinque persone. Gabinetti pubblici inutilizzabili, unico pozzo a circa un km di distanza. Il figlio più giovane s’innamorò di una donna di un villaggio vicino, sposata e madre. La fuga dei due sconvolse la vita dei genitori. La madre si tolse la vita mangiando una bacca velenosissima. Fu così che Tata venne a vivere all’ashram, che è ora la sua vera casa. Già un paio di anni fa, mentre io ero in Italia, Tata ha rischiato la vita. Mentre lavorava in giardino è stato morsicato da una vipera di Russel, un serpente molto velenoso. Era solo, quindi è andato a piedi fino al villaggio dove abita un figlio, a circa 3 km e poi è stato ricoverato per un mese in ospedale. I medici erano stupiti che non fosse morto, vista la tossicità del veleno, ma lui era tranquillo. Quando mi ha visto, dopo qualche mese, era in perfetta forma. Dice che se non è morto quella volta, vuol dire che questo lavoro è il suo destino e che per questo si sente protetto.
Perché Magia verde?
È questo il nome con cui le donne di una comunità indigena dell’Amazzonia ecuadoriana con cui ho vissuto da giovane chiamano il sapere antico delle donne raccoglitrici. Il loro amore e rispetto per la foresta e per le sue piante mi hanno sempre ispirata. Raccogliendo rare piante medicinali acquisite nei parchi e giardini botanici del Sud dell’India, in Kerala, Karnataka e Tamil Nadu, ho dato vita in anni di lavoro a quello che è diventato un giardino etnobotanico con circa 450 specie diverse di piante medicinali. Incuriositi, hanno iniziato ad arrivare donne e bambini dei villaggi vicini, e così ho cominciato a capire che l’antico sapere relativo a quelle piante rischiava di andar perso, scoprivo il pericolo della speculazione edilizia, della fine delle risaie e dei boschi di manghi secolari – distrutti per far posto a orride casette in cemento per i turisti indiani.
Come è avvenuta la reintroduzione della medicina delle piante nelle abitudini?
In pochi ormai conoscevano i nomi e gli usi delle piante che coltivavo. Chi si ammalava andava all’ospedale, dove per qualsiasi cosa riceveva una iniezione, a pagamento. Spesso il medico non c’era e bisognava andare al suo studio, e pagare per un servizio che avrebbe dovuto essere gratuito. Il posto che avevo scelto per vivere è famoso nel Tamil Nadu perché lì ha avuto origine l’antichissima medicina Siddha, ma purtroppo mi stavo rendendo conto che la gente più povera, che ne avrebbe maggior bisogno, non la conosceva o si vergognava di usarla, convinta della superiorità della medicina moderna. Così il giardino è diventato il cuore di un progetto di valorizzazione della medicina tradizionale, Siddha e Ayurveda. Ho seguito numerosi corsi di formazione, stabilendo un network con le organizzazioni non governative più impegnate nel settore. Abbiamo creato un vivaio per poter distribuire le piante più utili nei villaggi e nelle scuole. Nel corso degli anni i villaggi sono cambiati, sono più puliti, con tante piante che riempiono ogni piccolo giardino. Il nostro progetto si occupa più che altro di prevenzione, per migliorare igiene e alimentazione. La gente dei villaggi ha iniziato anche a usare le piante alimurgiche locali per integrare le minestre, ha la papaya a disposizione in giardino. Non è poco quando si guadagna un pugno di rupie al giorno.
Quali notizie ti arrivano adesso, dai villaggi del progetto e in generale? Ti sei fatta un’idea di quale insieme di co-fattori abbia scatenato l’emergenza degli ultimi mesi?
Credo i problemi più gravi si siano verificati nelle grandi città, in cui le condizioni di vita sono a volte terribili, per l’inquinamento e per la densità di popolazione. Purtroppo solo cerchie ristrette per lo più intellettuali usano la medicina Ayurveda e Siddha, che potrebbe avere un potenziale notevole per rinforzare le difese immunitarie. Anche nei villaggi con cui sono in contatto ho fatto molta fatica a valorizzare questo tipo di cure. È un lungo processo che comunque ha portato benefici evidenti. Ci è stato infatti chiesto di organizzare più campi medici per la diagnosi e la distribuzione gratuita di medicine, in particolare ora durante la pandemia. La nostra dottoressa dà anche consigli per l’alimentazione, il pregio della medicina tradizionale è che dà grande importanza alla prevenzione. Purtroppo la chiusura legata all’emergenza ha creato gravissime situazioni di indigenza e di malnutrizione anche vitaminica, che indeboliscono le difese. Un commento frequente è che si rischia di morire di fame più che di Covid. Per troppi è così. Per questo sono convinta che l’uso delle piante selvatiche ad alto valore nutrizionale sia importantissimo e vada diffuso. Non per nulla quelle piante si chiamano alimurgiche, alimenta urgentia.
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