Un simbolo in nome (e in memoria) di Silvio Berlusconi. Al momento la riforma della giustizia, passata come disegno di legge costituzionale mercoledì scorso in consiglio dei ministri, non è molto di più. Anche perché, al di là del piano simbolico e delle pur estremamente chiare intenzioni del governo, il percorso che porterebbe allo stravolgimento della giurisdizione, cioè alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, appare ancora piuttosto lungo. E incerto.

IL SOTTOSEGRETARIO Alfredo Mantovano ha detto subito in maniera esplicita che «il testo non è blindato» e che dunque sarà suscettibile di modifiche in parlamento. L’obiettivo, difficile ma in astratto non impossibile, è di arrivare alla maggioranza di due terzi che eviterebbe il referendum costituzionale sul punto. Non è un dettaglio secondario, anche perché il popolo italiano sarà chiamato a esprimere il suo parere anche su un altro cambiamento della Costituzione, «la madre di tutte le riforme» per dirla con Giorgia Meloni: il premierato elettivo. L’intenzione più o meno esplicita della premier è di far arrivare questo piatto alla fine della legislatura, perché, al di là dei proclami («Chi se ne importa se non passa»), è chiaro che il suo futuro politico passa quasi tutto per il successo o l’insuccesso di questa riforma.

CONSIDERANDO POI CHE, sempre per esplicita ammissione della maggioranza, la riforma della giustizia verrà affrontata dopo il premierato, ecco che arriviamo alla prossima legislatura. E questo vorrà dire ricominciare da capo, perché, come quelle ordinarie, al rinnovo del parlamento anche le leggi costituzionali devono affrontare di nuovo tutti i vari passaggi formali, in commissione e in aula. A voler essere ancora più pragmatici questa scansione delle tempistiche – ammesso e non concesso che la riforma Nordio riuscirà ad andare avanti – porta l’orizzonte degli eventi a un punto lontanissimo: il 2032. Già, perché questo Csm andrà in scadenza nel 2027 e a quel punto dovrà necessariamente rinnovarsi con il mandato che scadrà cinque anni dopo. Ecco di cosa parliamo quando parliamo di riforma della giustizia: un qualcosa che a voler essere molto ottimisti sul suo successo vedremo soltanto nel prossimo decennio.

PER IL RESTO, LO SCONTRO tra politica e giustizia prosegue sui binari di sempre, quelli delle inchieste. Una nota assai critica diffusa da Magistratura democratica sull’insolito attivismo della Commissione parlamentare antimafia in merito all’inchiesta sulle tangenti a Genova ha mandato su tutte le furie il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri. La storia è quella dell’audizione (secretata) in commissione del procuratore di Genova Nicola Piacente, con tanto di richiesta della commissione di consegna di tutti gli atti del procedimento in corso. Un clamoroso caso di ingerenza della politica sull’attività giudiziaria, sarebbe a dire l’esatto contrario di ciò che di solito lamenta la destra. «Certi che il rispetto reciproco tra le istituzioni coinvolte sarà la cifra che caratterizzerà lo scambio di informazioni – si legge nella nota di Magistratura democratica -, non è inutile rammentare che il compito delle commissioni parlamentari d’inchiesta non è quello di giudicare, né di sostituirsi alla magistratura, nell’attività di accertamento dei fatti».

Gasparri a questo punto decide di fare la voce grossa contro le toghe rosse: «Ho deciso di scrivere una lettera al presidente del Csm, ovvero al presidente della Repubblica, su questa nota di Magistratura democratica, che definirò nella lettera a Mattarella come merita di essere definita: intollerabile». E ancora, sempre più duro: «Chiederò una riunione dell’Antimafia su questa nota e mi riservo di valutare se rendere noti i contenuti dell’audizione, perché siamo di fronte ad un atteggiamento incredibile. Magistratura democratica si duole perché evidentemente non sono stati raggiunti gli scopi prefissati. Evidentemente qualcuno ha rivelato i contenuti dell’audizione. E allora il segreto è una buffonata? È ora di finirla con questa dittatura della magistratura che dice anche al Parlamento cosa deve fare. È un’aggressione».