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Giustizia non è fatta: un anno di depistaggi

Giustizia non è fatta: un anno di depistaggiLa famiglia Regeni in parlamento – LaPresse

A un anno esatto dal suo rapimento, nel giorno dell’anniversario di piazza Tahrir, un video mostra Giulio Regeni mentre svolgeva il proprio lavoro. Girato dalla polizia. Dall’incidente stradale alla banda criminale, le piste false e le bugie fino ai riflettori puntati di recente su Abdallah

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 25 gennaio 2017

Lo abbiamo rivisto appena qualche giorno fa, Giulio Regeni, in un video che, al di là dei motivi per cui è stato diffuso (dalla procura egiziana, prima ancora che da quella italiana), mostra un ragazzo che il 15 gennaio scorso avrebbe compiuto 29 anni appassionato del proprio lavoro, rigoroso, professionale, e insieme empatico, umano.

A un anno esatto dal suo rapimento – oggi, anniversario dei moti di Piazza Tahrir – dal quel giorno in cui sparì a pochi metri dalla sua abitazione al Cairo dopo l’ultimo contatto telefonico avuto con il suo amico Gennaro Gervasio alle 19:41, il ricercatore friulano ritrovato morto sulla strada per Alessandria il 3 febbraio 2016 è riapparso in quelle immagini inedite girate con una telecamera nascosta dal sindacalista degli ambulanti cairoti, Mohammed Abdallah, l’uomo che per sua stessa ammissione consegnò Regeni «agli Interni».

La procura di Roma, che è in possesso di quella lunga registrazione (un’ora e 55 minuti) dall’ultimo vertice con gli inquirenti egiziani a Roma, all’inizio di dicembre, ha sempre sospettato che quel video (girato il 6 gennaio 2016) fosse stato realizzato grazie a microspie fornite dalla stessa polizia egiziana al capo degli ambulanti.

A dimostrazione del fatto che anche riguardo la durata delle indagini svolte dagli inquirenti cairoti su Regeni («dal 7 gennaio, dopo la segnalazione di Abdallah, e per soli tre giorni», aveva assicurato il procuratore generale Sadek) non sia mai emersa tutta la verità.

Ma le autorità giudiziarie di Al Sisi ci hanno abituato a depistaggi e bugie malgrado le promesse di «collaborazione». Tanto che suona quasi una beffa il recente via libera della procura egiziana dato finalmente – e dopo molti rifiuti – alla richiesta dei magistrati italiani di inviare al Cairo Ros e Sco, insieme agli esperti di un’azienda tedesca specializzata nel recupero dei dati delle telecamere di sorveglianza, per analizzare gli impianti delle stazioni metropolitane della zona di Dokki, il quartiere dove Giulio viveva e dove passò (secondo i dati delle celle telefoniche) prima di sparire, il giorno dell’anniversario della caduta di Hosni Mubarak.

I depistaggi iniziarono subito, appena poche ore dopo il ritrovamento del cadavere orrendamente martoriato del ricercatore, a poche centinaia di metri da una prigione dei servizi segreti. In quelle ore Al Sisi riceveva la ministra delle Attività produttive Federica Guidi, in visita istituzionale per tutelare gli affari di centinaia di imprese italiane nel Paese nordafricano.

Di «incidente stradale» parla subito il capo della polizia di Giza, Shalaby, un servitore dello Stato condannato in via definitiva nel 2003 per aver torturato un detenuto. Da quel giorno in poi le “piste” fatte trapelare dagli ambienti giudiziari cairoti e accreditate sui media egiziani (e non solo) sono le più disparate: un gioco omosessuale finito male, il linciaggio di un depravato, un atto di criminalità comune, un omicidio passionale, un regolamento di conti tra spacciatori e drogati (anche se nel corpo di Regeni non venne trovata traccia di sostanze stupefacenti), l’eliminazione di una spia, il risultato di una faida interna ai sindacati o ai movimenti di sinistra, il tradimento di un dirigente della Oxford Analytica, la società alla quale il ricercatore prestava la propria collaborazione…

Tutto fuorché il «movente politico». Anzi, il movente politico a un certo punto viene fuori: il governo egiziano paventa prima un sabotaggio messo in atto dai Fratelli musulmani, poi, all’inizio di marzo, una «fonte di alto rango della presidenza egiziana» prova ad accollare la responsabilità dell’omicidio di Giulio direttamente allo Stato Islamico. In fondo, sarebbe stata una verità di comodo per tutti, italiani, europei ed egiziani.

E se non fosse stato per la forza e la dignità della famiglia Regeni, per l’attenzione sollevata dalle associazioni per i diritti umani, Amnesty in testa, per il battage della stampa internazionale e della comunità accademica, e per il rigore del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, forse qualcuno anche in Italia sarebbe stato disposto a chiudere un occhio e ad accettare la pista più accreditata da Al Sisi.

Ma nessuno abbocca, anzi, la campagna «Verità per Giulio Regeni» prende piede ogni giorno di più, con la denuncia puntuale della violazione sistematica dei diritti umani sotto il regime del generale golpista. Il 24 marzo allora viene messa in scena il più teatrale dei depistaggi: cinque criminali comuni vengono trucidati in un conflitto a fuoco con la polizia egiziana e in uno dei loro «covi» verranno poi fotografati su un piatto d’argento, tra oggetti che non gli appartenevano, anche il passaporto, due tesserini universitari e il bancomat di Giulio.

Si prova così a chiudere il caso dando tutta la colpa alla «banda specializzata in sequestri di stranieri». Anche se invece l’episodio rivelerà alla procura di Roma – che ancora ieri dissentiva dalla versione egiziana – il coinvolgimento di agenti della National Security nella pianificazione dei depistaggi.

«Il caso giungerà presto a conclusione, siamo vicini a una svolta», avevano fatto trapelare qualche settimana fa gli uomini vicini ad Al Sisi. E di nuovo ieri il presidente della commissione Affari esteri egiziana, Ahmed Said, a margine di un’audizione in Parlamento europeo, ha rilanciato: «Presto mi aspetto annunci, tra uno o due mesi. Siamo disposti a fare tutto il possibile perché la questione si risolva una volta per tutte».

Staremo a vedere in che modo, ma la verità è scritta – purtroppo – sul corpo di Giulio. «L’ho riconosciuto solo dalla punta del naso», disse sua madre, Paola Deffendi, minacciando di pubblicare le foto di quel volto se il governo italiano non avesse messo alle strette le autorità cairote. «Hanno usato il suo corpo come una lavagna», riferì mesi dopo quando le vennero trasmessi gli ultimi risultati dell’autopsia italiana, che naturalmente non combaciavano affatto con quelli egiziani.

«Abbiamo visto e stiamo vedendo proprio tutto il male del mondo. Questo male continua a svelarsi pian piano», ha ribadito ieri commentando gli ultimi tentativi di spostare l’attenzione sul ruolo di Abdallah. C’è una sola verità da tenere a mente: Giulio è stato ucciso da «esperti torturatori», come spiegò il prof. Fineschi che eseguì l’esame autoptico. Un «lavoro» non certo da mercanti ambulanti.

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