Giro del mondo senza ritorno, nell’era dell’Antropocene
Intervista Mauro Varotto, docente di geografia a Padova, racconta il libro scritto insieme a Telmo Pievani per Raffaello Cortina, «Una mappa dell’umanità del futuro»
Intervista Mauro Varotto, docente di geografia a Padova, racconta il libro scritto insieme a Telmo Pievani per Raffaello Cortina, «Una mappa dell’umanità del futuro»
Ancora molto poco è stato fatto per combattere il cambiamento climatico in atto e anche l’ultima conferenza sul clima Cop27 di Sharm El Sheikh, in Egitto, è stata l’ennesima delusione. Nel frattempo assistiamo a estati sempre più calde, fusione dei ghiacciai, inondazioni, siccità. Eventi estremi sempre più comuni. Continuando così come sarà la Terra in futuro? E quali problemi si troverà davanti l’uomo?
Ce lo svelano Telmo Pievani, insegnante di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, e Mauro Varotto, docente di Geografia e Geografia culturale sempre all’Università di Padova, con il libro Il giro del mondo nell’Antropocene Una mappa dell’umanità del futuro (Raffaello Cortina Editore, euro 22), impreziosito da 17 mappe a colori che mostrano il mondo come sarà.
Varotto, il libro racconta il giro del mondo intrapreso dal protagonista Ian Fogg nel 2872. Perché questa data e questo protagonista?
La data è simbolica, non ha alcun criterio di previsione scientifica: si tratta di mille anni esatti dal Giro del mondo in 80 giorni di Phileas Fogg, il protagonista del romanzo di Jules Verne. Di lui viene ripreso il cognome, mentre il nome richiama quello di Ian Tattersal, antropologo evoluzionista inglese che nel suo viaggio segue le orme di Homo Sapiens e della sua diffusione nel pianeta a partire dalla culla africana, ricordandoci che, nel lungo periodo, non possiamo non definirci tutti migranti.
Il titolo riporta la parola Antropocene. Siamo già entrati in questa era geologica? E che cosa significa?
Sicuramente. I geologi dibattono ancora sulla data da cui farla partire, ma che la specie umana abbia apportato mutamenti a scala planetaria – a molti livelli, dalla crescita della CO2 atmosferica alla radioattività registrabile in tutti i suoli del pianeta a seguito degli esperimenti nucleari – è un fatto ormai indubitabile. Ci manca però la consapevolezza diffusa di questo impatto e la conseguente assunzione di responsabilità nei confronti degli altri esseri viventi. Questa è la vera sfida che ci attende.
Le carte geografiche dettagliate al 2872 riportate nel libro sono molto preoccupanti per la Terra. Come siete arrivati ad elaborarle?
Se la collocazione temporale delle vicende è simbolica, non lo è la geografia. Il nostro cartografo Francesco Ferrarese ha calcolato esattamente su modelli di elevazione digitale planetari la linea di costa che si otterrebbe con la fusione totale delle calotte glaciali continentali, un innalzamento di 65 metri sul livello del mare attuale. Ovviamente si tratta di un esito estremo che non prende in considerazione azioni umane di mitigazione: una situazione quindi improbabile, ma non impossibile.
L’Europa e l’Italia, in particolare, non ne escono bene…
Quello che balza all’occhio da queste mappe è che l’innalzamento del livello dei mari colpirebbe in termini quantitativi soprattutto i paesi del Nord Europa: scomparirebbero intere nazioni come Paesi Bassi e Danimarca; Germania e Gran Bretagna perderebbero il 30 per cento della loro superficie, l’Italia «solo» il 18 per cento. Insomma, contrariamente a quanto siamo abituati a pensare, le migrazioni si genererebbero anche da nord verso sud o meglio dalle terre basse alle terre alte.
Il continente dove maggiormente si sentiranno i danni del cambiamento climatico?
Direi senza dubbio l’Antartide, non solo perché perderebbe metà della sua superficie attuale, ma anche perché la totale fusione dei suoi ghiacci si riverbererebbe pesantemente su tutti gli altri continenti. Ma più che di continenti dovremmo forse parlare di zone più esposte: quelle costiere, quelle più popolose e povere. Il cambiamento climatico acuirà il divario tra chi avrà i mezzi tecnologici per difendersi e chi non li potrà avere. Una crisi ambientale destinata ad acuire anche le crisi sociali.
Per l’Antartide avete riservato anche una sorpresa…
Sì, la scommessa e il viaggio di Ian si chiudono in Antartide, più precisamente nel continente chiamato Iperaustralia, «la terra più a sud delle terre del sud». Un’area che assume nel libro il ruolo simbolico di Nuova Atlantide da cui ripartire con un nuovo percorso di civiltà. È curioso che la salvezza venga da sud, un rovesciamento anche semantico rispetto ai flussi attuali. Iperaustralia è la nuova Utopia, un messaggio di speranza.
Oltre a come sarà la Terra, proponete anche altri due scenari: quello delle migrazioni umane e quello che già accade nel mondo. Ci racconti del primo, delle migrazioni…
Il libro mescola volutamente tempi e linguaggi diversi: quello cartografico, quello narrativo e quello scientifico che racconta ciò che già sta accadendo oggi, a partire da alcuni «luoghi simbolo» dell’Antropocene, il retrobottega sporco del mondo ricco e civilizzato. Tra questi gli immensi campi profughi dell’Africa centrale (da Bidi Bidi in Uganda a Dadaab in Kenya); vere e proprie città di oltre 300.000 abitanti costituite da profughi che fuggono da siccità, conflitti, crisi umanitarie. Queste città ci raccontano due cose: le migrazioni non sono più emergenze temporanee, ma un fenomeno strutturale destinato a crescere nei prossimi decenni; i flussi interessano oggi soprattutto i Paesi poveri di confine con le aree di crisi, una realtà nascosta dalla retorica allarmistica dell’invasione sul Mediterraneo.
… invece in quali luoghi già oggi è evidentissimo il cambiamento climatico?
Sono moltissimi e ormai sempre più diffusi: le aree costiere interessate dall’erosione e dall’ingresso del cuneo salino; le città povere di verde che soffrono gli effetti di isole di calore sempre più intense; i fiumi dalle portate ridotte e la desertificazione delle campagne; le alte quote in cui i ghiacciai stanno rapidamente scomparendo… Luoghi diversi ma strettamente interconnessi. Ed è questo il ruolo della geografia oggi, evidenziare le connessioni, combattere gli specialismi ciechi di fronte alla natura relazionale del mondo.
Aldilà degli scenari apocalittici prefigurati dalle carte geografiche, il libro, come scritto nell’introduzione, vuole essere un invito all’azione… ma veramente crede che l’uomo d’oggi, o meglio l’economia attuale, abbia voglia di cambiare rotta per salvare il pianeta e quindi tutti noi?
Le resistenze di interessi economici consolidati sono molte, ma cresce anche la consapevolezza che il modello economico e lo stile di vita attuale sono ormai insostenibili. Non possiamo però permetterci di essere pessimisti, perché il pessimismo è la premessa all’inazione. Come affermava Gadamer (filosofo tedesco, 1900-2002, ndr), l’ottimismo non è una cosa negativa, e nemmeno positiva: è una necessità. Ci dà la forza per cambiare rotta.
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