La fuga in Libano di Ghosn, l’uomo Renault in Giappone
Giappone L’ex-amministratore dell’alleanza con la Nissan era ai domiciliari per reati finanziari
Giappone L’ex-amministratore dell’alleanza con la Nissan era ai domiciliari per reati finanziari
L’ultima immagine sul suolo giapponese di Carlos Ghosn Bichara, l’ex-amministratore dell’alleanza automobilistica Nissan-Renault accusato di crimini finanziari per miliardi di yen, è di domenica 29 dicembre. È riapparso il giorno seguente in Libano, paese di cui è cittadino (Ghosn è nato in Brasile nel 1954) e che, convenientemente, non ha trattati di estradizione con il Giappone.
Secondo un notiziario della Nhk – la Rai giapponese – sarebbe uscito dalla sua casa di Tokyo, dove si trovava da marzo scorso agli arresti domiciliari e non vi avrebbe più fatto ritorno.
NELLA RICOSTRUZIONE delle autorità giapponesi e turche, Ghosn sarebbe transitato per l’aeroporto di Istanbul sulla via di fuga e avrebbe lasciato il Giappone dall’aeroporto-isola artificiale di Osaka usando il Tamayura gate – per jet privati, disponibile da circa 2mila euro a volo e con comodo parcheggio e servizio dogana, immigrazione e quarantena «con alto livello di privacy» come si legge in un flyer dell’aeroporto – che si trova proprio difronte al terminal 1 progettato da Renzo Piano. Diverse persone sono state arrestate proprio per questo nelle scorse ore in Turchia, per aver falsificato i registri di volo. Si sarebbe sottratto ai controlli dell’immigrazione nascondendosi in un largo contenitore per strumenti musicali, forato per l’occasione e imbarcato sull’aereo. Secondo l’autorità aeroportuale un aereo privato sarebbe partito da Osaka nella notte di domenica e si sospetta che proprio sul quel mezzo ci fosse a bordo Ghosn.
L’ULTIMO FOTOGRAMMA delle telecamere di sicurezza sarebbe stato registrato intorno alle due e mezza del pomeriggio e questi tempi permetterebbero di coprire la distanza da Tokyo a Osaka con uno Shinkansen, un treno ad alta velocità, in poche ore e poi in taxi dalla stazione all’aeroporto.
Le indagini della polizia di Tokyo si concentrano ora sulla ricerca dei complici della fuga. Fino al suo arresto nel novembre del 2018 all’aeroporto di Haneda a Tokyo, dove era appena atterrato, Ghosn era visto come una star del mondo d’impresa in Giappone per aver guidato a partire dal 1999 la ristrutturazione della casa automobilista Nissan, che si trovava negli anni ’90 in una profonda crisi finanziaria.
FU L’ENTRATA della francese Renault nel capitale della casa nipponica (ora al 43 per cento) a portare Ghosn in Giappone.
Qui si fece una reputazione di dirigente decisamente fuori dagli schemi d’impresa nipponici. Il suo piano industriale fece chiudere in pochi anni 5 stabilimenti, ridurre i dipendenti di 21mila unità e ridusse drasticamente il sistema di rapporti industriali della Nissan per ottenere prezzi d’acquisto più bassi. Questo sistema è noto in giapponese come keiretsu e lega i fornitori a una grande impresa capofila tramite rapporti di partecipazione e stretta collaborazione. Dopo 19 anni di idillio, però, è emerso un lato oscuro della gestione Ghosn.
UN’INDAGINE INTERNA all’azienda effettuata nel 2018 ha individuato una serie di condotte ritenute penalmente rilevanti: dalla mancata dichiarazione di parte dei compensi, fino ad una serie di controversi versamenti che avrebbero fatto delle casse aziendali un’estensione di quelle private.
La commissione incaricata dell’indagine ha così trasmesso i suoi risultati alla procura di Tokyo. Per la mancata dichiarazione dei propri redditi Ghosn ha già patteggiato negli Stati Uniti una pesante sanzione ed è stato bandito da cariche aziendali per 10 anni, ma senza accettare alcuna responsabilità, che ancora nega in sede penale in Giappone.
PER GHOSN, che pare fosse all’oscuro dell’indagine interna, si tratterebbe di un complotto ordito ai suoi danni dai patriottici dirigenti della Nissan per fermare i suoi piani di una più stretta integrazione, fino alla fusione, tra la casa nipponica e la controllante francese.
La Nissan avrebbe molto più volume di produzione e sarebbe anche molto più redditizia della Renault e da questo originerebbe il risentimento della dirigenza per i suoi progetti. Ghosn, nel corso della sua lunga detenzione preventiva, si è spinto oltre fino a ipotizzare che il complotto coinvolga anche le autorità nipponiche, che vorrebbero, secondo lui, chiudere così con il suo piano aziendale.
IL GOVERNO FRANCESE si è mostrato molto attento alla vicenda, possendo il 15 per cento di Renault, tanto da indurre il presidente francese Emmanuel Macron a chiedere un incontro sul tema al primo ministro giapponese Shinzo Abe a margine del G20 in Argentina. Abe, secondo un comunicato del ministero degli Esteri, avrebbe dato assicurazioni sulla solidità dell’alleanza industriale, ma anche ribadito che la soluzione deve venire dagli azionisti privati e non essere trattata dai governi.
Abe da anni cerca una parziale riforma del capitalismo giapponese con l’introduzione di standard societari più occidentali, con nuovi direttori nei consigli di amministrazione esterni, anche stranieri, e una loro più flessibile e generosa remunerazione, oltre ad un ruolo più forte per gli azionisti. Sugli editoriali della stampa economica anglosassone già si teme che il caso possa rendere il Giappone una meta meno appetibile per i capitali globali.
SE È VERO che nel caso di Ghosn si sono susseguite ben tre richieste successive di arresto cautelare sempre concesse, le tecniche usate dalla procura di Tokyo con interrogatori quotidiani e stretto isolamento nella fase delle indagini è sostanzialmente in linea con quanto avviene in un sistema penale in cui la confessione è ancora visto come lo strumento migliore per condurre un’azione penale. La quasi totalità degli accusati viene infatti condannata.
RESTA IN GIAPPONE (mentre ieri le autorità nipponiche hanno emesso un mandato d’arresto per la moglie di Ghosn) l’altro direttore ex-Nissan, cittadino statunitense, arrestato insieme a Ghosn per le sole mancate dichiarazioni, mentre appare difficile alla luce dei precedenti un’estradizione di questi, per quanto sia sulla lista rossa dell’Interpol, da parte del Libano. Quel che resta, però, più in bilico è il futuro del gruppo industriale, troppo integrato per dividersi e con troppe immagini aziendali – e di riflesso nazionali – da conservare.
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