Giacomo Matteotti, un omicidio per celare tangenti e corruzione
I colpi di rivoltella esplosi a Sarajevo da Gavrilo Princip dei nazionalisti di Mlada Bosna, unitamente e quelli dei bolscevichi al Palazzo d’Inverno sono due dei più potenti scoppi del Novecento. Avvenimenti destinati a cambiare i connotati geopolitici europei, con la distruzione degli imperi centrali e lo sviluppo di nazionalismi dalla prossima declinazione in fascismi. Fascismo che nasce in Italia, dove un re senza schiena e – come nell’omicidio Matteotti – senza onore né morale, consegnerà il Paese alle camicie nere.
A PROMUOVERE Vittorio Emanuele III in una azione criminale poi lunga un ventennio e più, una classe politica dominante (quella liberale) incapace di rapportarsi con le conseguenze della guerra. La Marcia su Roma fu di fatto l’estetica del fallimento della borghesia liberare a favore di un padronato greve. Nell’ottobre del 1922 il tempo passato da marzo del 1919 pareva di tre secoli, non di tre anni. La favoletta raccontata a San Sepolcro era rimasta lì, fra le pareti che avevano ospitato sbandati, rancorosi, delusi, frustrati, esagitati di vario genere e natura.
Comprendere le dinamiche della nascita del mussolinismo significa pesare la cifra politica del fascismo. C’è insomma da decidersi se concedere a quel movimento un portato inizialmente rivoluzionario o denunciarne tout court quello eversivo e/o reazionario. Passaggi che a prescindere dalla loro reale e specifica consistenza, hanno infine trovato una saldatura nella dicotomia Destra-Sinistra e/o rivoluzione-controrivoluzione (oppure «reazione»): categorie inconciliabili.
La sgangherata masnada che trotterellò su Roma con camion, macchine, motociclette, biciclette, asini e muli, fra chincaglieria degli Arditi, slogan futuristi e dannunziani, propositi di rivendicazioni, rivalse e ritorsioni, sarebbe stata disperdibile con quattro cannonate. E poi, che fare? Fu proprio questo pietrificante quesito a mettere Facta («uno dei maggiori idioti di tutti i tempi», a detta di Salvemini), nella condizione di farsi liquidare come uno straccio vecchio da sua maestà.
CHIUSA LA PARABOLA del fascismo a livello storico, del mussolinismo è rimasta viva la discussione – anche – sul suo tratto culturale (e ideologico). Registriamo così come preponderanti le tesi che lo riducono a un’unica dimensione: quella del contro. Contro lo stato liberale, contro il socialismo, contro la democrazia. Coerentemente con il suo capo bivaccaro: un maestro elementare dalla assai zoppicante formazione culturale, nonché posseduto dal delirio del potere.
Nel breve arco di tempo che separa la fine dello zarismo dalla – resistibile – ascesa del fascismo, le sue posizioni mutano infatti radicalmente. Nei suoi scritti di quel periodo la propaganda emerge come fine, non come mezzo. In un coacervo di pregiudizi pedestri e furti ideologici, la sua azione è sempre finalizzata a declinare pro domo sua i tanti cambiamenti cui è soggetta l’Italia postbellica. La sua figura sarà centrale in quella «guerra civile europea» che produrrà le categorie «guida» di tutto il ’900, a cominciare da quella del fascismo. E dell’antifascismo, i cui tratti fondamentali s’incarnano in Matteotti.
UNA STORIA, quella dell’eliminazione del segretario del Psu, falsamente blindata nell’immaginario collettivo, con Mussolini indicato come mandante per la denuncia fatta alla Camera: il 30 maggio 1924, Matteotti aveva svelato i brogli e le violenze che avevano segnato le elezioni politiche. In realtà, al capobanda fascista (come egli stesso si qualificò) non interessava nulla di quanto detto dal suo antagonista, ma quel che avrebbe detto l’11 giugno, quando avrebbe smascherato i papaveri del fascismo come una banda di corrotti. Al pari di sua maestà Vittorio Emanuele III. Non solo il cerchio magico del duce, ma pure la corona aveva infatti incassato tangenti milionarie dall’americana Sinclair Oil.
Matteotti è di fatto una sorta di febbre naturale del fascismo. L’onorevole socialista ne monitorava la temperatura non solo sul piano della violenza, ma pure dell’incompetenza (non a caso stava facendo le pulci al bilancio dello Stato), delle ruberie, della corruzione. Una febbre che Mussolini e il re sconfissero affidandosi a un’altra banda: quella di Amerigo Dùmini, ossia, la «Ceka fascista», ossia la banda del Viminale. Sette mesi dopo l’omicidio, Mussolini va in Parlamento e, di fatto, annuncia la nascita del regime.
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