Cultura

Ghadirian, una convivenza dura come pietra

Shadi Ghadirian, «Seven Stones #2», 2023Shadi Ghadirian, «Seven Stones #2», 2023

Intervista A colloquio con l’artista iraniana, che a Roma presso la galleria Anna Marra presenta la nuova serie «Seven Stones» nella cornice della personale «I’ve grown roses in my garden», a cura di Silvia Cirelli

Pubblicato 15 minuti faEdizione del 8 ottobre 2024

Tra i rimandi alla staged photography di Erwin Olaf e Gregory Crewdson, dove l’attimo del quotidiano è incapsulato in una sospensione temporale ad alta tensione, Shadi Ghadirian (è nata a Teheran nel 1974, qui vive e lavora) inserisce elementi autobiografici.

Nella nuova serie Seven Stones, presentata per la prima volta in Italia nella personale I’ve grown roses in my garden, curata da Silvia Cirelli alla galleria Anna Marra arte contemporanea di Roma (fino al 9 novembre), c’è sempre il riferimento ai propri affetti. Nella mise-en-scène si riconosce l’artista iraniana Mojgan Bakhtiari e nelle foto incorniciate su una parete del salotto anche i suoi genitori, la figlia Leila da bambina, sorelle e nipoti, nonché Bahman Jalali (fondatore con la moglie Rana del The City Photo Museum di Teheran) che per Ghadirian è stato insegnante, mentore e caro amico.

Il lavoro, nato durante il covid-19, s’ispira nel titolo al gioco «Haft Sang» (sette pietre) in cui i bambini disponevano le pietre una sull’altra a formare una torre che veniva abbattuta lanciando una palla: i giocatori, quindi, si accaparravano le pietre; vinceva chi ne aveva di più. In Seven Stones un grande masso domina l’inquadratura: una presenza ingombrante con cui i singoli soggetti devono convivere, trovando ciascuno il proprio modo per aggirare l’ostacolo. Una metafora eloquente.

Shadi Ghadirian cura ogni singolo dettaglio della composizione fotografando gli oggetti separatamente per poi assemblarli in un «puzzle digitale». Nell’ultima immagine della serie – la settima – il masso è all’esterno, sul prato davanti all’uscio della casa: qualcosa sta lentamente cambiando.

Shadi Ghadirian a Roma, 2024 (foto di Manuela De Leonardis)

Un doppio livello di lettura attraversa tutti i suoi lavori: anche in «Seven Stones», dove il masso invade gli spazi domestici, si celano messaggi meno espliciti?

Il titolo Seven Stones da una parte si riferisce a un gioco per bambini che si faceva in Iran in altri tempi; dall’altra, il fatto che il masso venga raffigurato all’interno delle nostre vite private, nelle nostre case – qualcosa che non possiamo rimuovere facilmente – indica una convivenza che ci pesa. È duro vivere intorno a quelle pietre, non ci fa piacere ma dobbiamo trovare un modo per continuare ad andare avanti.

I personaggi ritratti, adulti e bambini, appaiono chiusi in loro stessi come se il mondo esterno non esistesse…

Deve essere così perché descrive le nostre vite. Non siamo felici nell’Iran di oggi. Ho cinquant’anni e nell’arco di questo tempo nel paese sono successe molte cose. La rivoluzione, la guerra Iran Iraq… ogni anno accade qualcosa. Chiunque ha perso amici e familiari. Ma ci sono manifestazioni per la strada, le persone non sono contente. I soggetti nelle mie foto riflettono questo stato d’animo, non voglio che sul loro volto trapeli alcuna reazione.

Cosa l’ha portata a prendere subito le distanze da fotografia documentaria e reportage per sperimentare intuitivamente la «staged photography»?

All’inizio dei miei studi, pensavo che bastasse spingere un pulsante ma non era così. Iniziai a fare fotografia documentaria ma mi resi conto immediatamente che non avrei potuto essere una fotoreporter: quando si fa quel lavoro si scatta cogliendo il momento. Io, invece, non riesco a fotografare senza chiedere il permesso a chi sto per ritrarre che ha il diritto di sapere se la sua immagine finirà su un giornale. Questo, naturalmente, cambia l’approccio. Fisicamente, poi, non sentivo confortevole andare in giro portandomi la macchina fotografica. Non mi interessava neanche la bella immagine o quella commerciale, volevo raccontare storie affrontando le questioni sociali della mia generazione, del mio paese. È stato allora che ho scoperto la staged photography. Inoltre, dato che sono una persona che tende a controllare tutto, questo genere di fotografia mi dà la possibilità di farlo: la luce, la composizione, l’espressione dei soggetti.

Un controllo che prevede un processo di costruzione metodologica del lavoro?

È importante la storia che voglio raccontare. Dopo l’idea c’è la ricerca, partendo sempre dalla vita stessa, dai miei sentimenti che confronto con quelli di altre persone, soprattutto donne. A quel punto, comincio a visualizzare l’idea, certe volte facendo dei disegni o scattando foto con una piccola fotocamera. Solo quando sono sicura che possa funzionare comincia il lavoro con il team. C’è chi si occupa della decorazione, degli interni, delle luci, degli abiti… Lo shooting in sé può durare due o tre ore, invece l’editing richiede molto più tempo.

In «Like Everyday» i veri protagonisti sono gli utensili da cucina e gli elettrodomestici ricevuti come doni di nozze, mentre in «Qajar» si tratta di oggetti della nostra contemporaneità maneggiati da donne della sua cerchia familiare – le sorelle Niki e Nooshin, cugine, amiche – immerse in un’atmosfera d’altri tempi. La costruzione di microcosmi in cui è centrale la figura femminile avviene sempre tra le pareti del suo studio, circondata da oggetti che le appartengono?

Forse perché riflettono il mio mondo, la maggior parte delle mie fotografie riguardano donneritratte negli interni e circondate da cose. Personalmente amo stare in casa anche se da due anni, dopo le proteste di Woman Life Freedom, ho ricominciato a uscire più liberamente. Non devo indossare il velo. Odiavo uscire con la testa coperta.

«Like EveryDay #18», 2000, courtesy of the artist

Non è pericoloso non indossarlo, considerando come le donne iraniane siano umiliate e perseguitate dalla polizia morale solo per non indossare correttamente l’hijab, come nel caso di Mahsa Amini diventata simbolo di ribellione?

Sì, può esserlo. Io guido l’automobile e sono stata fermata almeno dieci volte dalla polizia, ogni volta mi intimano di coprirmi la testa ma non lo faccio. Succede anche in strada o alle fermate della metro. A preoccuparmi, piuttosto, è mia figlia che ha 17 anni. Quando esce rimango in ansia finché non rientra a casa. Viviamo giorno per giorno.

Quali compromessi implica il poter vivere e lavorare a Teheran: ci sono espedienti a cui ricorre per aggirare la censura?

Ho la libertà di poter scegliere se esporre o meno il mio lavoro in Iran, del resto le gallerie sono soprattutto all’estero. Non intendo autocensurarmi e non ho relazioni con il governo, a Teheran espongo i miei progetti nelle gallerie private. Certo, molte volte mi chiamano chiedendomi spiegazioni rispetto al lavoro. Ci sono abituata. Vengono improvvisamente nella mia casa e cominciano a guardare ovunque, anche nel computer. Una volta che mi ero recata in India per una mostra, al ritorno mi hanno fatto delle domande e hanno trattenuto il mio passaporto, poi però me l’hanno restituito. Può succedere in qualsiasi momento.

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